“…quando l’ultima giraffa, l’ultimo orso bianco muore, muore anche la prima giraffa alla quale Adamo ha dato il nome,
quella imbarcata sull’Arca. La sua fine segna l’estinzione di un seme eterno, una divinità uccisa, un deicidio”.
J. Hillman, Animali del sogno.
Il mondo della natura non ha parole, è muto di fronte a noi umani che nei secoli abbiamo
cercato di riempire questo spazio attraverso miti, racconti, religioni ed ideologie.
Scrive M. Buber: “Sono tre le sfere in cui si costruisce il mondo della relazione. La prima è
la vita con la natura, in cui la relazione si arresta alla soglia della parola”.
Attraverso le scienze gli esseri umani hanno sempre cercato di scoprire cioè di
interpretare reconditi segreti, armonie di funzionamento, possibilità di utilizzazione che si
trasformano in tecnologie: continua e spasmodica ricerca per dare “parola” a ciò che in sé
non ha “un senso” o un verso ma è così, è dato, esiste e ci sta di fronte e forse ci interroga
rispetto alla nostra stessa presenza nel mondo.
Negli ultimi due secoli, tempo irrisorio di fronte all’infinito ma tempo infinito per la mia vita,
è accaduto qualcosa: lo scarto, la differenza tra l’essere umano, soprattutto occidentale, e
la Natura è diventato sempre più piccolo, fino ad annullarsi fino alla invasione fisica,
chimica, cellulare di tante zone sia del pianeta Terra, sia degli organismi naturali.
La natura non più mitica, non più terribile e salvifica allo stesso tempo è ormai ridotta a
mero accessorio, utensile della società occidentale.
I giganti che sostengono il cielo, gli spiriti, gli dei delle microcolture amazzoniche si sono
trasformati in anonimi parquets nelle nostre case.
Quali segnali stanno giungendo dal mondo non-umano, cosa ci vogliono dire?
La distruzione di forme naturali non controllabili, non coercibili e quindi non assoggettabili
è il segno più evidente di questi ultimi anni. La riproduzione di ‘sosia’ di ‘doppi’ di società
umane e la espulsione reale o fantastica di tutto ciò che è altro da me (o non io) ci sta
portando ad una omologazione della natura e della società umana contro la diversità
naturale. Il mondo è sempre più umano, troppo umano, un mondo solo per l’Homo
Sapiens.
Da un punto di vista fenomenologico si osserva l’instaurarsi di una nuova patologia che in
altro luogo ho definito “patologia del compiersi”; l’invasione e la conseguente
omologazione attraversa tutti gli ecosistemi e si ripresenta in tutti i livelli dell’esperienza.
Quale malessere c’è dietro questo sintomo?
Come studiosi della relazione individuo/ambiente in che modo ci riguarda tutto ciò?
Come terapeuti della Gestalt diamo grande importanza all’interazione tra individuo e
ambiente, quest’ultimo inteso in tutte le sue accezioni, e quindi come rientrano questi
fenomeni nel nostro concetto di Ambiente cioè di ciò che ci sta intorno, che ci abbraccia,
che ci sostiene?
La crisi ambientale entra nelle asettiche stanze del terapeuta e si manifesta nel rapporto
con il paziente.
Certamente un collegamento, forse neanche tanto lontano, c’è tra la proliferazione di
quelle patologie che contattiamo sempre più spesso: border-line, tossicomani,patologie
narcisistiche, disturbi d’ansia e di panico, caratterizzate dalla ‘crisi della presenza’ e
dall’assenza di contenitori fantasmatici, e la perdita, o meglio il tramonto, di quella grande
‘riserva immaginaria’ costituita dalle forme naturali (paesaggi, foreste, animali, oceani, etc.)
cioè del grande contenitore Madre-Terra. E d’altronde nella polarità opposta la ricerca
sfrenata di salutismo, di benessere a tutti i costi, di diete naturiste, di macrobiotiche, di
salvavita o salvacondotti per il futuro, conferma una mancanza di contatto reale con la
parte primordiale, quella che vuole sentirsi animale, appartenente alla natura.
AL CONFINE DI CONTATTO TRA GESTALT ED ECOLOGIA
La natura e le sue forme sono entrate a far parte dei valori da difendere nella nostra
società occidentale. Il progressivo affermarsi di un’etica ecologista e la nascita di nuovi
soggetti etici (le generazioni future, gli animali tramite il movimento di liberazione degli
animali, e tutte le altre specie in genere tramite il concetto di biodiversità) hanno allargato i
confini di valori di molte persone. Ciò permette di domandarci se il nostro esserci nel
mondo sia ‘ecologicamente compatibile’ e possa creare un nuovo ‘adattamento creativo’
adeguato alle mutate condizioni del pianeta. Proprio nella ricerca di questo adattamento
creativo ci sono dei punti di contatto tra l’ecologia e la terapia della Gestalt. Il tentativo qui
proposto è quello di superare la mera interpretazione dei fatti (lettura diagnostica della
distruttività umana sulla natura) per giungere ad un mettersi in gioco e ad un ‘contaminarsi’
con problematiche che normalmente esulano dalla psicoterapia.
Il tipo di approccio, sia in Gestalt che in ecologia, al ‘materiale’ di indagine è simile. Le due
discipline procedono con un metodo di tipo fenomenologico e fenomenico senza cercare
di applicare alla realtà teorie preformate: “per la terapia della Gestalt, la superficie
dell’esistenza è il piano che, preordinatamente, va focalizzato, l’essenza vera dell’uomo
psicologico. E’ in questa superficie che esiste la consapevolezza, la quale dà orientamento
e significato alla vita”. E., M. Polster
La ‘superficie dell’esistenza’: la nostra vita sulla Terra è possibile per pochi decimetri a
volte centimetri di humus pieno di vita!
L’approccio olistico permette il passaggio da un livello all’altro (in Gestalt dal livello
cognitivo, per esempio, a quello corporeo – in ecologia dalla nicchia ecologica al suo
ecosistema) e da qualsiasi livello si parte non ha una grossa importanza perché si arriva
comunque ad un approccio integrato tramite gli altri livelli: di modo che il tutto è sempre
diverso e altro rispetto alla mera somma delle parti.
L’olismo, la globalità, non favoriscono l’instaurarsi di un canale preferenziale di
comunicazione; in Gestalt la testa non conta più del corpo e la razionalità non ha più
valore delle emozioni. Questo approccio alla realtà sconferma la relazione causa-effetto
sulla quale ancora si basa il nostro rapporto con la natura, preferendogli una relazione
circolare che potrebbe essere visualizzata tramite una spirale.
La dimensione letterale con la realtà percepita ha portato ad una esclusione di tutti gli altri
livelli comunque esistenti. Per esempio la forzata esclusione dell’aspetto metaforico dalle
pratiche scientifiche, dall’economia, dalla vita di tutti i giorni, ha fatto sì che si perdesse
una ricchezza e una varietà di contatti con il mondo percepito che supera la limitante
causa efficiente.
La dimensione letterale, lineare, razionale, apollinea nel rapporto uomo-natura (come in
quello uomo-uomo) perde la partecipazione mistica, il mistero, la tragedia (vedi il nostro
rapporto col cibo così distante dall’animale da cui proviene che ormai non viene più
percepito come tale) del nostro vivere.
Il livello metaforico ristabilisce profondità e spessore ad un rapporto reso spezzettato dalla
letteralità. La metafora, il senso secondo, l’integrazione di altre varianti rendono complesso
e ambiguo lo scontato rapporto con la natura. L’ambiguità, esclusa dalla razionalità
economica e dal progresso scientifico, rientra in gioco come possibilità richiamata dalla
crisi ambientale. Si ripropone così il tragico dilemma, l’impasse, la contraddizione
fondamentale, dalla natura. Per gli ecologisti “la natura non è un giardino piantato per
l’uomo” A. Gorz, esistono limiti di sfruttamento non superabili: ci sono segnali che la soglia
di sopportabilità delle “polluzioni” umane è molto vicina.
LA GESTALT-THERAPY: DIVERSITA’ VERSO L’INTERSOGGETTIVITA’
Come la malattia fa riappropriare l’individuo del proprio corpo, così la ‘crisi ambientale’ ci fa
‘sentire’ di nuovo la nostra appartenenza agli ecosistemi naturali. Ritorna così l’ambiguità:
amare e tradire la natura; Da un lato “la natura non è sacra. La vita umana sulla terra è
precaria e per espandersi deve necessariamente modificare certi equilibri
dell’ecosistema”.
Dall’altro le attuali modificazioni dell’ambiente stanno distruggendo le basi stesse (aria,
acqua, terra) del nostro ‘essere gettati’ qui sul pianeta Terra.
E’ ormai da molto tempo che in ‘figura’ è fissato un tipo razionale di uomo e un pensiero
logico che ha relegato sullo ‘sfondo’ altre potenzialità: immaginazione, fantasia, metafora,
gioco e… aggiungete Voi quant’altro. Stare dentro l’ambiguità, accettare la contraddizione
significa prendere consapevolezza di quegli aspetti del Sé scartati ed esclusi fin
dall’infanzia dagli atteggiamenti nevrotici di genitori castranti.
Prendere ‘contatto’ con il corpo (proposto nella nostra società o come corpo-cadavere o
come corpo-superficie oppure corpo-veicolo), vivere la sessualità, le emozioni non
espresse e forse non conosciute, visti i modelli sociali normativi introiettati in precedenza.
Eccoci, quindi, nel setting terapeutico e nella relazione ‘paziente-terapeuta’. Qui si
manifesta la ‘natura’, il ‘non poter essere altro’ del paziente. Come accoglie il terapeuta i
bisogni espressivi del paziente?
Quali strade vuole percorrere insieme a lui e quali, invece, ostacola, preclude, interrompe?
Quali ‘diversità’ il terapeuta è disposto ad accettare? Quale concetto di salute viene
proiettato sul paziente?
La salute non è assenza di malattia (che cosa vuol dire essere sani se in realtà si è
deprivati di tante ricchezze personali, sociali, naturali), ma è un processo, una ricerca di
benessere che non può escludere bisogni fondamentali dell’organismo umano.
In questo senso la terapia della Gestalt è orientata a considerare la salute non come uno
stato acquisito ma un processo di crescita non omologato e non preordinato.
Come le forme naturali non sono a noi riconducibili, il loro essere è sempre ‘altro’, così
l’incontro con il ‘tu’ nella relazione terapeutica non è a me assimilabile (pur essendoci un
territorio in comune).
La diversità umana negata, omologata agli schemi della società occidentale (vedi la
inesorabile sparizione delle civiltà primitive) può essere salvaguardata e sviluppata negli
studi di psicoterapia. Le diversità che contattiamo ci danno modo di far esprimere
creatività e fantasia.
Creatività, fantasia, immaginazione ci trasportano altrove (metaforein) in luoghi non
conosciuti, nei luoghi dell’infanzia, della ‘scoperta’, forse verso Atlantide. L’occupazione
fisica, ‘scientifica’, umana dei luoghi sognati e immaginati dove la Fantasia può spaziare
liberamente, sembra essere un processo irreversibile. L’assimilazione degli ultimi territori
estranei e alieni alla presenza dove regna la fiaba, il mito, la paura, ci priva di quel fertile
humus, di quella ‘riserva immaginaria’ dalla quale per secoli tutti i popoli hanno attinto
costellazioni di miti e di sogni, dove si è espresso l’inconscio collettivo.
Quale folletto, elfo o ‘briccone divino’ può ormai nascondersi tra i tronchi abbattuti della
foresta? Quale paurosa ‘ombra’ è scomparsa con la accecante luce del sole equatoriale?
La ‘perdita’ di questi luoghi misteriosi, spaventosi, ‘sacri’ significa l’appiattimento della
nostra relazione con il mondo.
Di nuovo dal mondo esterno a quello interno (ma c’è poi tanta differenza?) dalla relazione
con la natura al setting terapeutico.
Il ‘compito della psicoterapia’ è quello di non creare nuove norme, altri introietti, un
moralismo ‘terapeutico’, ma di liberare, salvaguardare la creatività, la fantasia valorizzando
la ‘scoperta’ di noi stessi, la scoperta di altri linguaggi: i sentimenti, il corpo, i sogni.
Ed è nell’intersoggettività, nella relazione unica e particolare con l’Altro che si costruiscono
nuovi “ambienti”, nuovi luoghi che non corrispondono al Sé o al Tu ma a quei nuovi
ecosistemi che posso definire come Tu-con Me o Io-con-Te.
Luoghi insoliti e sconosciuti, privi di certezze e di aspetti cumulativi, ma in cui la
estraniazione di entrambi diventa luogo fecondo: cognitivo ed emotivo.
È solo nello spazio intersoggettivo – tra due persone, tra consulente e cliente o paziente e
terapeuta – che si possono articolare “nuove figure”, Gestalt nuove e rappresentative,
scaturite da diversità individuali ma con punti di contatto condivisi.
Se riteniamo che “il vero vivere è incontrare” (M. Buber) allora possiamo uscire dalle
secche del pensiero unico e dalla “utilizzazione dell’Altro” per giungere ad un
atteggiamento di osservazione, di stupore, di attesa e…di perdita.
Tale atteggiamento, per tornare al punto di partenza, ci permette anche di mantenere
quello scarto tra il desiderio ed il realizzato, sia nello spazio intersoggettivo sia nel
rapporto con gli elementi naturali, scarto pieno di meraviglia, immaginazione, possibilità…
La sfida del III° millennio sarà proprio quella di trasformare le nostre categorie di pensiero
e di azione da quelle che fanno riferimento ad una progressiva crescita e quindi a invadere
territori, altre specie o le nuove generazioni, ad un pensiero della “perdita” e del lasciare –
magari osservando in silenzio da lontano!
Pesaro, 18 giugno 2002 Dr. Andrea Bramucci
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