Studio di Psicologia e Psicoterapia "Ecotono"

- Dr. Andrea Bramucci

LA REGOLA NELLA COMUNITA’ TERAPEUTICA: STRUMENTO DI CRESCITA ESPRESSIONE DI PATOLOGIA

Le Comunità Terapeutiche prevedono e si reggono, sia a livello ideale che reale, su un determinato sistema di regole. La regola è la continua ripresentazione del Principio di Realtà contro le lusinghe del ben più pervasivo Principio di Piacere.

Le regole designano dei confini simbolici non oltrepassabili e si configurano come potenti strumenti di contenzione di ansie persecutorie del tossicomane (come del resto di ognuno di noi).

I “non si può” o “non si deve” delle regole ritagliano una porzione ben definita nello spazio simbolico, creando un ordine da seguire e indicando come disordine tutto ciò (infrazioni e comportamenti devianti) che ne resta al di fuori.

Accanto a queste regole di tipo normativo che tracciano i confini esterni, la soglia del rapporto tra tossicodipendente e realtà esterna (soprattutto come limitazione di passaggi all’atto: rapporto con le sigarette, con il vino, con i mezzi di comunicazione etc.), esiste in ogni comunità un corpus di regole costitutive che “riempiono” lo spazio prima definito dalle regole normative. Questo secondo tipo di regole scandisce le attività della vita comunitaria “marcando di senso” il fluire disordinato del tempo. Ecco allora definirsi gli orari e i tipi di lavoro, i vari momenti della giornata e della settimana etc.

In realtà come vedremo fra breve, essa può risultare molto utile ad iniziare un dibattito sulla funzione della regola in Comunità Terapeutica.

Infatti se la regola normativa è molto utile nel primo periodo di permanenza in Comunità, in quanto bracca la ricorrente voglia di “sballo” dei ragazzi appena entrati, in un secondo momento è il secondo tipo di regola che riempie lo spazio reale e simbolico della vita comunitaria.
Ancora, se il primo tipo di regole si presenta nel segno negativo, cioè come punizione ad una infrazione commessa, il secondo dà invece suggerimenti costruttivi per un “chiaro” modo di affrontare la realtà.

Detto questo è bene ricordare che generalmente si considera in senso positivo quel ragazzo che rispetta e fa rispettare le regole e che del vivere comunitario ha colto tutte o quasi tutte le direttive.

Nella nostra pur breve esperienza abbiamo però notato come l’adesione incondizionata alle regole di Comunità nasconde molto spesso una patologia sottostante.
E’ questo ad esempio il caso di un eccessivo attaccamento alla regola come sostitutivo di un codice di comportamento ed anche di linguaggio.

Ciò è palese in quei ragazzi particolarmente poveri da un punto di vista culturale e che, privi di griglie di riferimento, si rifanno alle regole, per sé e per gli altri, in modo rigido e schematico.
Un altro esempio è quello di ragazzi con problemi psichici che si attengono alle regole in modo pedissequo, senza un positivo processo di interiorizzazione ma solo per un bisogno esasperato di “presenza” che una eventuale crisi potrebbe far scomparire.

C’è inoltre un atteggiamento o meglio un gioco sado-masochistico con la regola. Nell’atteggiamento fin troppo educato (atteggiamento del bravo bambino) si può intravedere la voglia di poter figurare con gli altri, soprattutto con gli operatori, riproponendo molto probabilmente la stessa perversione della famiglia di origine. Oppure può esserci un comportamento eccessivamente deviante che rimanda ad una richiesta di considerazione o a provocare una risposta punitiva per avvalorare anche qui il gioco psicotico del “chi chiede ma non vuole in realtà essere ascoltato”.

Occorre rilevare anche la sadica rivalsa dei ragazzi più anziani su quelli appena entrati riproponendo del puro nonnismo da caserma. Infine, altro gioco perverso è quello attivato da colui che calcola la punizione prima di infrangere una certa regola per far si che il piacere della trasgressione sia superiore alla punizione che seguirà.

Gli esempi finora citati danno la visione della profonda differenza che si ha tra la teoria delle regole ed i vissuti reali che nasconde.

La regola è un termine di confronto, forse il primo per il ragazzo in Comunità. Ma  se tale momento (la regola in fondo è solo una piccola parte o per lo meno lo dovrebbe diventare con il passare dei mesi di permanenza in Comunità) dunque occupa, soprattutto nella sua interface punitiva, uno spazio più grande del dovuto, allora spesso ci troveremo di fronte a terapie comunitarie basate sulle regole e sulle punizioni, dove questa non sono il punto di partenza di un discorso terapeutico, bensì il punto di arrivo.
Ritornando alla differenza posta all’inizio di questa comunicazione tra regole normative e regole costitutive, bisogna dire che sarebbe bene (si parla come operatori) ridurre nelle Comunità Terapeutiche le prime e invece incrementare le seconde, cioè passare da un divieto ad una proposta.

Ma al di là di questo sarebbe bene soprattutto istillare nei giovani ex tossicodipendenti un più alto concetto di responsabilità e di rispetto verso se stessi e gli altri per far si che si arrivi non tanto ad una adesione incondizionata della regola esterna ma ad una continua discussione, ad un continuo confronto, all’interno della Comunità, su ciò che quella regola significa e su ciò che si prefigge.

Tale continua messa in discussione di se stessi e delle regole smentirebbe il pericolo del costituirsi di personalità eccessivamente rigide ma in realtà molto fragili, che una volta uscite dalla Comunità ricadono nel “buco nero” proprio per la mancanza di un atteggiamento dialettico continuo e più giusto con se stessi e con gli altri.

E il discorso ora non può che rifarsi al modello che, bene o male, ogni Comunità propone. L’applicazione della regola come legge inalienabile (per tutti i problemi detti prima) e la mancata rielaborazione sulla sua giurisprudenza, offrono un modello monocorde, unilaterale di persona che non sa rapportarsi ad una realtà multiforme e molto difficile che c’è al di là della Comunità.

Gli innumerevoli insuccessi degli ultimi anni sono da attribuirsi anche a ciò ed alla pretesa di educare uomini simili a marionette anziché stimolarli continuamente verso la crescita di una persona libera, autonoma e responsabile.

Prima di tutto questo discorso sulle regole forse bisognava analizzare in quale modo l’operatore di Comunità si rapporta ad esse in quanto, in fin dei conti, è lui che ha la facoltà, in ultima analisi, di far rispettare le regole e di punire. Ed è l’operatore che in fondo si pone in un continuo rapporto odio-amore con la regola.

E’ forse legittimo chiedersi qual è il desiderio dell’operatore che cura il tossicomane o chiedersi cosa si nasconde dietro questo desiderio.

In fondo, molto spesso, avere a che fare con delle persone può far scattare degli strani meccanismi perversi, latenti o meno, che fanno perdere di vista il fine ultimo di questo lavoro, se così vogliamo definirlo.

E il gestire un potere quale quello di essere “giudice ultimo” di certi comportamenti non raramente fa scattare nell’operatore un vero delirio di onnipotenza che spesso porta ad andare oltre certi valori umani quali il rispetto e la considerazione verso i ragazzi, pur di confermare il proprio ruolo.

Spesso è molto più facile applicare automaticamente una norma sanzionatrice piuttosto che spiegarne i perché attraverso un confronto che vorrebbe significare anche una continua messa in discussione di se stessi, che non tutti siamo disposti ad accettare.
E da qui il riproporre asetticamente regole e multe senza valutare la situazione, la persona, il motivo per cui si è portati in quel momento a fare quella trasgressione.
“Io sono l’operatore” che compensa le sue incertezze e le sue frustrazioni riempiendosi di un ruolo.

“Io sono l’operatore che ha la verità in mano e ti dice cosa è bene e cosa è male” nascondendo dietro questo potere tutta la propria fragilità e la propria incapacità a farsi rispettare come persona.

“Io sono l’operatore e finalmente posso riscattarmi” riproponendo attraverso un gioco sado-masochista, dei suoi vissuti passati.

“Io sono l’operatore” che molte volte, nel suo approccio con il tossicodipendente ricava solo un senso di impotenza, un sentirsi continuamente in posizione di scacco. L’operatore che al suo desiderio “non drogarti”, ha come risposta continui passaggi all’atto, condotte all’esasperata ricerca del piacere immediato, del tutto e subito, al quale “tu, tossico, trasmetti tutta la tua angoscia, ma so come salvaguardarmi perché ho un potere in mano e alla minima infrazione verrai punito perché sono Io che faccio le regole tu dipendi da me!”.

E’ chiaro che non è imponendo le regole, perché più semplice, perché si evita una messa in discussione, perché gratifica il proprio essere o perché compensa le proprie insicurezze, non è “normalizzando” che si arriva a far acquisire al ragazzo ex tossicodipendente una propria autonomia e una propria identità.

“Ogni operatore o terapeuta è prima di tutto una persona che deve porsi di fronte il proprio atteggiamento rispetto ad un ‘utente’ per una verifica del proprio atteggiamento”.

(V. Costa, “Il contratto terapeutico” da Atti del Seminario di Studio sulle Tossicodipendenze, Pesaro, 9/10 ottobre 1986).

Se un operatore non sa cambiare, se non sa mettersi in discussione, se non sa verificarsi attraverso i rapporti, se si limita (per i propri vissuti) a riproporre norme e regole con la condizione che solo lui è in possesso del vero, senza avere un minimo di senso di umiltà da poter dire “Ho sbagliato”, non si fa altro che riproporre una serie di schemi fissi e cristallizzati che servono solo a difendere la parte tossicomanica dell’operatore stesso.

 

Bibliografia

1)   Arnao G. Il dilemma eroina. Feltrinelli, Milano 1985.

2)   2) AA. VV.: L’operatore e il tossicomane: quali interventi, quali prospettive. Atti della Conferenza Regionale del 2 maggio 1984, Regione Marche Servizio Sanità.

3) AA. VV.: Prevenzione o recupero? Due facce dell’intervento sulle tossicodipendenze. Atti del Seminario Nazionale di Studio sulle tossicodipendenze. Pesaro, 9-10 ottobre 1986.

4) AA. VV.: Tossicodipendenze: per un approccio non contradditorio. Significati e metodologie, disoccupazione e precariato, utenza e operatori. Atti del Seminario Nazionale di Studio Pesaro, 1-2 dicembre 1988.

5) Benfatto A.: Istituzione, Psicanalisi e Tossicomania. Il Lavoro Editoriale, Ancona 1984.

6) C.N.C.A.: Programma del Coordinamento Nazionale delle comunità di Accoglienza. Stampato in proprio, Roma 1982.

7) Olivenstain C.: Destin du Toxicomane. Paris 1983 (Trad. it. “La vita del tossicomane” Libreria Editrice Lauretana Loreto 1987).

8) Villa G.: L’oblio del Pharmakon. Euroma, Roma 1988.

 

Pubblicato su “PSICOLOGIA EUROPEA“.

 

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