Parlare oggi di famiglia significa introdursi in un universo multivariegato e strano che sempre più si diversifica e si complessifica con il passare del tempo.
“Le nuove famiglie”, dal titolo di un saggio da poco apparso in libreria, si stanno presentando sulla scena del sociale proponendo tutta una serie di possibilità e di incroci leciti ed etici (e a volte superando anche tali confini!), fino a mettere in seria difficoltà gli studiosi e i demografi che non riescono più a seguire l’evolversi di tale fenomeno nel nostro mondo occidentale. Ma quali sono le caratteristiche comunque comuni, indipendenti da situazioni contingenti e passeggere, che ci danno indicazioni preziose sulle strutture e sui rapporti familiari? Nonostante le nuove tipologie di soggetti e di “sistemi” (coniugi separati con figli altalenanti, conviventi con o senza prole, figli acquisiti da precedenti matrimoni o figli affidati etc.) che sembrano mettere nell’armadio la obsoleta famiglia patriarcale, occorre individuare elementi non transitori all’interno dei gruppi-famiglia (comunque composti) che possono permetterci confronti e riflessioni sul vivere in e con la famiglia.
Prima di rispondere, o meglio di tentare di argomentare – dal mio punto di vista – una visione d’insieme sulla vita in famiglia, voglio presentare quello che è il mio “osservatorio” particolare.
Lavoro da dieci anni nel campo delle tossicodipendenze e sicuramente, nel bene o nel male, tutta la famiglia è coinvolta nel “sintomo” espresso dal loro congiunto.
Senza entrare nei dettagli del discorso terapeutico familiare, posso dire che ci sono alcune costanti presenti nelle famiglie da me conosciute sul lavoro in questo periodo. Preciso anche, e ci tengo a farlo subito, che le affermazioni che seguiranno non sono un’accusa o un giudizio alle famiglie conosciute, ma, se riesco a rappresentarla, vorrebbe essere una descrizione di situazioni ricorrenti che possono indurre riflessioni successive senza diventare totalizzanti.
D’altronde è dalla “patologia”, che significa studio del dolore e della sofferenza, che possiamo trarre (in questo come in altri campi) insegnamenti per la realtà quotidiana, per la cosiddetta “normalità” – se quest’ultima esiste o forse è per me meglio parlare di situazioni compensate.
LA FAMIGLIA COME LUOGO DI COMUNICAZIONE.
L’elemento più evidente che emerge dagli scambi tra i genitori e il figlio/a tossicodipendente è la completa mancanza di comunicazione.
Per la verità forme di comunicazione ci sono, ma sono distorte, manipolative, frettolose e soprattutto scontate.
Ognuno dei componenti della famiglia non presta attenzione alle parole dell’altro, ma va su binari automatici, dove già sa (cioè ritiene di sapere) le risposte del figlio o del genitore, sa cosa succederà e fa richieste paradossali che mettono in difficoltà o in “scacco” l’altro.
Comunicazione, poi, non è solo parlare ma soprattutto un fluire di sentimenti, di emozioni, che, per cause diverse e lontane, non possono essere espressi, non sono accettati, vengono respinti perché provocano squilibrio, ansia, paura.
A volte il solo riuscire a dire “ti voglio bene”, o il poter permettersi di abbracciare il padre (o il figlio), ha bisogno di una lunga preparazione (quando accade) e di una vera fatica fisica e psichica dei componenti della famiglia.
Ci riguarda oggi a noi “normali” tutto ciò?
Nella nostra società sempre più “virtuale”, sempre meno emotiva, dove chi piange – anche un bambino – infastidisce, e chi urla è già affetto da qualche disturbo, la famiglia è da un lato uno dei pochi luoghi dove apprendere ed esprimere emozioni e passioni, dall’altro la famiglia si è adeguata (ormai da tanto tempo) ai rituali televisivi e alle mode correnti perdendo quella caratteristica di luogo protetto e rilassante ove ci si può anche lasciare andare.
I “non detti”, i sentimenti non espressi o banalizzati, i conflitti di coppia o generazionali (nonni – genitori e genitori – figli) passati in sordina, ritornano in modo eclatante nella storia familiare come un boomerang che acquista velocità lungo il suo percorso, e si abbattono sulle relazioni tra i coniugi, tra i padri e i figli, spesso distruggendo anche gli aspetti sani e positivi che comunque esistevano.
Tutto ciò, la maggior parte delle volte, avviene al di là di qualsiasi intenzionalità o volontà consapevole dei componenti della famiglia.
IL LAVORO COME SCUSA.
Il lavoro ha assunto nel nostro modo di vivere un ruolo oltreché centrale, anche totalmente assorbente.
Nel lavoro si trovano le garanzie economiche per vivere, ma tutti noi ricerchiamo anche gratificazioni, ruoli, spesso amicizie, o sul lavoro si passa il tempo (altrimenti che cosa faccio?). Nel lavoro, spesso, troppo spesso, si nascondono i padri di figli con problemi di tossicodipendenza o devianti.
Padri che per la causa lavorativa hanno sacrificato loro stessi e ciò che altre persone importanti e vicine avrebbero voluto da loro in modo diverso (magari andare a fare una passeggiata insieme!).
Il lavoro, così, diventa nelle storie di tossicodipendenza una scusa sia per i genitori che per il figlio/a: “mi drogo perché non ho il lavoro!” Ma è proprio così?
Il lavoro perde il suo ruolo emancipatore e di autosostegno per diventare ora un mezzo per acquisire denaro, sempre più denaro, ora una “valida ragione” per stare fuori di casa o da ambienti che non piacciono più e che modificarli costa troppa fatica.
Certamente, il denaro è sempre scarso. Ma poi questi soldi a cosa servono?
Il genitore, spesso dice, “ho voluto dare a mio figlio ciò che io non ho avuto” ma (da padre io stesso facendo una per quanto possibile sincera autocritica) posso dire che i figli hanno più bisogno del tempo che dei soldi dei genitori… e di tempo oggi ne abbiamo sempre meno a disposizione, anche per noi stessi.
Poi, quando i figli sono cresciuti il guadagno di faticose giornate di lavoro viene “bruciato” dai bisogni effimeri dei figli che, ora adolescenti, misurano l’amore dei genitori attraverso le “cose” acquistate o permesse fino a sperimentare un vuoto, insicuri ma grandi, non più colmabile.
E i bisogni dei genitori? Nell’incontro con loro che hanno pensato di fare bene, di dare tutto (ed anche di più): “l’ho fatto per lui, per il suo bene!”, ora masticano l’amarezza delle parole dure che ricevono (quando escono), di sguardi persi, e molti continuano a non capire.
Il genitore deve, allora, recuperare la propria sfera dei bisogni sempre negata, sacrificata all’altare del lavoro e dei figli; la cosa più difficile per questi genitori è spesso “sentire” ed “esprimere” i loro veri bisogni! Dopo decine di anni di automacerazione qualcuno riesce a permettersi un periodo di ferie!
Ridare al lavoro, la giusta dimensione è un compito che ci riguarda tutti e non solo i genitori di tossicomani.
Quando diciamo: “ho da fare!” che cosa vogliamo dire in quel momento? Che cosa vogliamo evitare? Che cosa ci infastidisce, o che cosa perdiamo? Chissà, potremo fare delle scoperte.
PRESENTARSI PER COME SI E’.
Nell’epoca della società dell’immagine tutti dobbiamo camuffarci in qualcun altro, magari basta un paio di scarpe o di occhiali da sole, ma soprattutto occorre adeguarsi alle regole della competizione. Nelle famiglie tossicomaniche tali segnali sono molto evidenti.
E’ molto difficile per i componenti di queste famiglie presentarsi per come si é: per esempio a volte maldestri, oppure fragili e insicuri o vergognosi: gli aspetti negativi – o considerati tali – vengono nascosti, spostati.
I “valori” sono tutti esterni al soggetto, alla sua famiglia, sono valori da giocare fuori, c’è un forte senso di riscatto e una voglia di costruirsi una identità (attraverso il lavoro, il denaro) che di base è molto insicura e goffa.
Ma è solo “entrando in contatto” con la nostra parte più meschina e più misera che possiamo conoscerci: solo non rifiutando le nostre ambiguità possiamo, poi, non nasconderci a noi stessi, agli altri, ai nostri figli.
La storia di una famiglia è il percorso intrecciato di più individui che con fatica e gioia costruiscono il loro modo di stare insieme senza dare nulla per scontato.
Presentarsi per ciò che si é significa, a volte, anche deludere gli altri; ciò richiede una certa dose di coraggio. Deludere è dare un senso di realtà contro le invadenti illusioni della società virtuale.
Farsi vedere, scoprirsi, aprirsi ad un contatto fresco con gli altri (e in famiglia con il coniuge e con i figli) non è facile: non sappiamo quali potrebbero essere le conseguenze.
Tornando alla domanda iniziale, posso dire che l’elemento comune che sopravvive a tutti gli sconvolgimenti nel tempo della famiglia è il lessico familiare.
Con questo termine – ripreso dal famoso libro della Ginzburg – intendo le parole, i sentimenti, il clima, la fiducia, i conflitti: in sintesi la struttura di relazioni che nel tempo i componenti di una famiglia depositano lungo la loro storia.
Le parole espresse, i sentimenti condivisi, le passioni non rifiutate ma vissute sono i più efficaci sistemi di prevenzione all’insorgere di problemi di comunicazione come la tossicodipendenza.
Nella conoscenza e nell’uso del proprio lessico familiare il figlio/a o il genitore ritrova un linguaggio a lui noto che lo sostiene nei momenti di bisogno e che lo proietta in modo indipendente e non stereotipato alle eccitanti esperienze del mondo esterno.
Pubblicato su “ROCCA”.