Per poter iniziare un discorso intorno al gruppo in psicoterapia, occorre analizzare questo approccio come si è via via costituito a partire dai primi anni del ventesimo secolo e lentamente ha trovato una struttura sempre più definita.
La prima notazione è sul piano storico-sociologico e riguarda il gruppo come modalità di rapporto tra gli individui.
L’industrialesimo – a partire dall’inizio del XIX secolo in Inghilterra ed Olanda – moltiplicò gli scambi sociali e le occasioni di contatto tra i componenti della società: per esempio, la vicinanza di persone tra loro sconosciute in un’industria manifatturiera, divenne una nuova configurazione, un nuovo schema di riferimento nelle relazioni sociali e nelle mappe mentali individuali. I cambiamenti sociali furono ancora più accentuati negli Stati Uniti dove la vita associativa rappresentò una componente essenziale per lo sviluppo del paese, ed è proprio qui che si ebbero i primi studi sui gruppi (Cooley 1909).
Questo sfondo di mutamenti sociali porta ad un dibattito teorico sulle tematiche della folla, del gruppo e dell’individuo che si svolse a partire dalla metà del XIX secolo.
Da un lato Emile Durkheim, sociologo, nell’opera Il suicidio affermava la totale dipendenza dell’individuo dalla società: le variabili sociali influenzano in maniera soverchiante la individualità e le scelte della persona. Dall’altro le tendenze della psicologia che per esigenze autolegittimanti, distaccava in maniera netta lo psichico dal sociale.
All’interno di questo dibattito si esprimeva Sigmund Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’io. Scrive Freud: “La contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse, contrapposizione che a prima vista può sembrare molto importante, perde, ad una considerazione più attenta, gran parte della sua nettezza. La psicologia individuale verte sull’uomo singolo e mira a scoprire per quali tramiti questo cerca di conseguire il soddisfacimento dei propri moti pulsionali, ma solo raramente, in determinate condizioni eccezionali, riesce a prescindere dalle relazioni di tale singolo con altri individui. Nella vita psichica del singolo, l’altro è presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in quest’accezione più ampia, ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è anche, fin dall’inizio, psicologia sociale”.
La citazione di Freud è del 1921 ed è carica di futuro e di ciò che sarà poi la reale portata della psicologia sociale e del “lavoro” con i gruppi – anche se lo stesso Freud non orienterà la sua ricerca e la sua teoria in questo senso.
Questa affermazione dà un taglio netto alla disputa sulla preminenza del sociale o dell’individuo e complessifica la percezione dei meccanismi psicologici.
Il gruppo come esperimento.
La dimensione associativa e gruppale trova il suo terreno di espansione, come ho già detto, negli Stati Uniti. Il pensiero pragmatico e funzionalista americano tutto orientato alle tematiche adattive dell’individuo nel gruppo porta a studi e ricerche dettagliate, tra il 1930 e il 1950, sui quali si è costituita la psicologia sociale come disciplina.
I problemi indagati riguardavano le difficoltà di inserimento sociale degli immigrati, le bande giovanili, il problema razziale, etc…, su tutte spicca la ricerca condotta ad Hawthorne presso uno degli stabilimenti della Western Electric Company negli anni 1927 – 1932.
Questo tipo di sperimentazione con piccoli gruppi, fu criticata da alcuni autori – Horkheimer ed Adorno in particolare -, poiché ritenevano che questo tipo di studi sul gruppo primario dessero per scontate alcune variabili economiche (di tipo capitalistico), essendo solo focalizzati sulle variabili socio-affettive. La disamina dettagliata di questa critica mi porterebbe lontano e fuori dall’obiettivo di questo scritto. Sta di fatto che attraverso le sperimentazioni citate sopra, vennero definiti una serie di concetti e categorie che continuano ad orientare la ricerca sui piccoli gruppi: comunicazione, coesione, norma, devianza, cooperazione, competizione, appartenenza etc…
Nell’analisi delle dinamiche di gruppo, un ruolo di primo piano lo svolge Jacob Moreno. Moreno è famoso per due tecniche da lui inventate: la sociometria che consiste nell’analizzare “la struttura socio-emotiva e socio-funzionale di un gruppo sulla base delle reciproche valutazioni condotte dai membri”; o come dice Moreno stesso: la sociometria è “uno strumento che serve a misurare l’importanza della organizzazione che appare nei gruppi sociali, alla luce delle attrazioni e dei rifiuti che si manifestano all’interno di questo gruppo” ed inoltre come “uno studio matematico delle proprietà psicologiche di una popolazione”.
La seconda critica elaborata da Moreno fu lo psicodramma. Questa tecnica dà la possibilità di rivisitare in un piccolo gruppo i vissuti di una persona con tecniche riprese dalla drammaturgia. Lo psicodramma viene poi utilizzato da Fritz Perls nella versione del monodramma, in cui il soggetto che descrive i propri vissuti non è solo regista della drammatizzazione ma interpreta lui stesso i personaggi, della storia raccontata, in modo sequenziale.
La sociometria moreniana apre la strada alla formalizzazione logico-matematica nello studio dei gruppi (con tutti i limiti che ciò comporta: qual’è la funzione matematica di un’emozione?). Questa strada viene proseguita da Kurt Lewin. Ma se nel metodo sociometrico è ancora l’atomo sociale l’elemento base, di partenza per lo studio dei microgruppi, Lewin parte subito con la definizione di campo.
La field-theory introduce uno sguardo olistico alle relazioni sociali e nelle dinamiche dei gruppi. Lewin, che aveva a lungo lavorato a fianco di W. Koehler, applica gli elementi caratterizzanti la percezione secondo la psicologia gestaltica alla psicologia sociale. Il gruppo diventa un organismo autonomo non più la sommatoria delle singole individualità – come in qualche modo è nei behavioristi legati alla funzione S-R (anche se complessificata) o in Moreno che studia le interrelazioni tra gli individui – ma qualcosa di diverso e di altro. Il gruppo, ribadisce Lewin, “ha struttura propria, fini peculiari e relazioni particolari con gli altri gruppi. Quel che costituisce l’essenza non è la somiglianza o la dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Esso può definirsi come una totalità dinamica. Ciò significa che un cambiamento di stato di una sua parte o funzione qualsiasi interessa lo stato di tutte le altre”.
La teoria di campo permette di ragionare sulla costruzione di un nuovo sistema che non è dato a priori, ma a cui occorre volgere lo sguardo senza teorie preformate, descrivendo ciò che c’è e ciò che funziona in quel particolare campo.
Con un linguaggio ed un riferimento a me particolarmente caro, posso dire che il gruppo vive un suo equilibrio ecologico e tutti gli elementi concorrono a determinarne il suo ecosistema. Lewin applicò la sua teoria in svariati contesti ed esperimenti in cui voleva comprendere il reale funzionamento dei gruppi.
L’approccio teorico-sperimentale di Lewin trova il suo punto di applicazione nell’esperienza dei T-Groups (training-groups) – nel 1947 a Bethel nel Maine presso i Laboratori Nazionali di Addestramento – .
Lewin considera il T-Group come una possibilità di intervenire positivamente sulla soluzione dei problemi sociali. Il T-Group iniziò con dei gruppi di discussione per risolvere un problema contingente: modificare i consumi alimentari delle massaie statunitensi durante la 2^ guerra mondiale.
“Il T-Group tradizionale è composto di un ristretto numero di persone – da dieci a sedici – che si riuniscono in un ambiente residenziale per circa 2 settimane… Gli obiettivi del T-Group consistono nell’aiutare i partecipanti a divenire consapevoli delle ragioni per cui sia loro stessi che gli altri si comportano in un certo modo – nei gruppi, oppure di divenire consapevoli della dinamica comportamentale del gruppo”. (Ruitenbeek, 1972).
Con l’avvento del T-Group inizia il cammino della psicoterapia di gruppo. Il gruppo non è più solo un luogo di sperimentazione ma diviene un luogo terapeutico, un luogo di cambiamento.
Il gruppo come luogo terapeutico.
Il bisogno di incontrarsi in gruppo e di discutere o rappresentare i problemi personali e sociali è sempre esistito nelle società umane. Già le tragedie greche rappresentavano, attraverso storie, allegorie e metafore, i conflitti individuali e all’interno delle città-stato. In tempi più recenti, all’inizio del XX secolo, senza ancora poter parlare di psicoterapia di gruppo, il Dott. Joseph Pratt a Boston offriva sostegno a classi di malati di tubercolosi che, oltre ad essere colpiti fisicamente dalla malattia, erano additati socialmente come responsabili della stessa – ciò è molto simile all’attuale situazione colpevolizzante che circonda persone sieropositive dal virus HIV e malati di AIDS.
Ma se c’è una continuità nei bisogni umani, ci sono anche modalità diverse di risposta agli stessi e la nascente psicoterapia di gruppo si differenzia dai tradizionali contenitori (soprattutto religiosi) delle ansie individuali e collettive.
Il “gruppo” diventa, attraverso la psicoterapia, un luogo terapeutico: cioè un contesto di incontro tra persone, definito da tempo, spazi e modalità di relazione, in cui ogni partecipante può parlare di sé o ascoltare gli altri, può gettare in mezzo nello spazio comune reale e simbolico interno del gruppo – in molti gruppi si sta seduti in circolo – ansie, sentimenti, storie, vissuti senza il pericolo di essere giudicato. Le caratteristiche del setting terapeutico non sono riproducibili al di fuori di questo: “il gruppo appartiene ad una categoria di strumenti, che potremo definire strumenti-relazione, i quali non possono essere pensati come esistenti indipendentemente dal loro uso”. (Carl, Paniccia, Lancia, 1988).
Le nuove psicoterapie di gruppo – soprattutto quelle ad indirizzo umanistico-esistenziale – si differenziano notevolmente dalla cristallizzata prassi psicoanalitica per due aspetti fondamentali. In primo luogo le nuove terapie escono dal modello tradizionale medico-paziente e creano un nuovo modello che è al tempo stesso psicologico e sociale. In secondo luogo l’obiettivo di questi gruppi non è più solo quello di curare o guarire i pazienti, ma diventa anche quello di apprendere qualcosa su di sé o di accrescere la propria personalità: la normalità entra così nelle stanze della terapia. Anche lo stile di conduzione del terapeuta cambia: da un atteggiamento indagatorio e di recupero archeologico, come dice Foucault, tipico dello psicoanalista freudiano si passa ad una relazione collaborativa basata sulla franchezza e ricettività.
L’allargamento del setting ha desacralizzato una prassi: occorre comunque ribadire che senza psicoanalisi non ci sarebbero state neppure le psicoterapie di gruppo. La stessa origine della psicoanalisi è indissolubilmente legata al nome di Sigmund Freud, mentre “l’invenzione della psicoterapia di gruppo benché sia rivendicata da varie persone, sembra” ovvio che non sia stata una singola grande mente a crearla.
Per una definizione di gruppo.
Giunto a questo punto e pur avendo nominato molte volte la parola gruppo, non ho definito (cioè non ho dato confini precisi!) questo termine.
Per ridare senso, spessore e tonalità affettiva al termine gruppo – uscendo così dalle secche dello scontato – occorre rispondere alle seguenti domande: che cos’è un piccolo gruppo? quali sono le sue caratteristiche? a quale esperienza si fa riferimento quando si parla di gruppo? come si struttura un gruppo terapeutico? quali tipi di gruppo esistono? e soprattutto come si configura un gruppo di Gestalt?
“Un primo criterio di identificazione comunemente adottato attribuisce al gruppo dimensioni limitate, non più di 10 – 20 componenti, che intrattengono rapporti frequenti e diretti (faccia a faccia), e lo distingue in questo modo sia dai comportamenti collettivi, non organizzati, che dalle istituzioni sociali rigidamente strutturate”. (De Negri Trentin, 1977).
La focalizzazione sulla quantità delle interazioni come elemento principale nell’analisi di piccoli gruppi è condivisa da Homans, ed anche Moreno attraverso il sociodramma raccoglie il numero di scambi tra i membri di un “microgruppo”.
Altri psicologi sociali individuano categorie diverse: la comunanza di ideali e valori (Newcomb), la prossimità fisica (Bales), la autopercezione di far parte del gruppo (Lewin).
Ma al di là di queste razionalizzazioni scientifiche, il termine gruppo risuona di una esperienza fondamentale nella storia di ogni persona e cioè il periodo adolescenziale e giovanile.
Nell’adolescenza, da qualcuno definita l’età dell’oro, il gruppo di amici e/o compagni di scuola rappresenta il luogo della condivisione, della identificazione, dei valori, del gioco, dell’esperienza intesa nel suo significato più pieno.
Nel lavoro con i tossicomani riscontro che é proprio nel periodo adolescenziale che l’atteggiamento trasgressivo si è fissato in modo maniacale: la mancanza di quella oscillazione tra normalità e devianza, tipiche di questo periodo evolutivo, ha determinato l’esito nella patologia.
D’altronde il gruppo, oltre ad essere una esperienza vissuta, diventa anche un oggetto interno psicologico e se questo oggetto è caratterizzato da un deposito di esperienze solamente – o quasi – negative, certamente sarà sempre questo tipo di appartenenza che verrà ricercata.
Anche nel piccolo gruppo terapeutico i partecipanti rivivono alcune tematiche adolescenziali – perlomeno ad un metalivello che è proprio quello della struttura del gruppo in sé – e si rimettono in moto quei meccanismi già esperiti in precedenza in altri gruppi e altri contesti e ogni componente del gruppo recita il proprio ruolo sociale ed il ripetitivo e nevrotico modo di contattare l’ambiente.
Dalla prima psicoanalisi alle psicoterapie di gruppo, c’è quindi un cambiamento nel quadro di riferimento, a livello evolutivo della persona. La psicoanalisi è infatti soprattutto incentrata sull’infanzia e sui suoi traumi, mentre nella psicoterapia di gruppo ci si trova più facilmente a lavorare su unfinished business di contatto e di relazione con l’ambiente (e non solo sul rapporto madre-bambino) relativi al periodo adolescenziale. E c’é senz’altro anche una differenza di bisogni tra chi preferisce una terapia individuale o una terapia di gruppo: “la terapia individuale è più attraente per l’individuo orientato verso l’interno, che non l’approccio di gruppo, il quale attrae l’uomo orientato verso gli altri”. Insieme alle consonanze tra gruppi naturali di adolescenti e piccolo gruppo terapeutico occorre anche vedere le differenze. La differenza principale è proprio nella costituzione stessa del gruppo di incontro dove l’elemento unificante – perlomeno all’inizio – è la motivazione personale di ognuno dei partecipanti e non la conoscenza pregressa o la condivisione di esperienze precedenti.
Il gruppo terapeutico è un organismo costruito, che segue formalmente delle regole di tempo, spazio e di comportamento.
Il gruppo terapeutico è un gruppo artificiale – ovvero fatto con arte – “e proprio perché è artificiale che esso è terapeutico: un gruppo umano spontaneo non ha di per sé niente di terapeutico, non più di una carota o di un’arancia; ma quando si sono concentrate artificialmente le vitamine in esse contenute, l’estratto può diventare terapeutico”. (A. Ginger, 1990).
La Psicoterapia della Gestalt con i gruppi.
“La differenza tra la terapia gestaltica e la maggior parte degli altri tipi di psicoterapia è in sostanza che noi non analizziamo nulla. Noi integriamo. Quel che cerchiamo di evitare è precisamente il vecchio errore di confondere la comprensione con la spiegazione. Se spieghiamo, se interpretiamo, questo può essere senz’altro un giuoco intellettuale interessantissimo, ma è sempre un’attività sostitutiva, e un’attività sostitutiva è peggio che non far niente”. (Perls, 1969).
L’uomo civilizzato del ventesimo secolo è tutto nella testa: è profondamente distaccato dalla realtà, tutto teso a interpretare – in senso letterale: “negoziare il valore” – ciò che gli accade intorno, rispondendo, poi, alle sollecitazioni dell’ambiente con fantasie, fughe in avanti o indietro, evitamenti o sostitutivi.
La Psicoterapia della Gestalt risponde così all’esigenza di uscire dalla testa e di riappropriarsi di tutte quelle facoltà umane che nel processo di depersonalizzazione della società occidentale avevano perso d’importanza.
L’obiettivo della terapia gestaltica formulata da Perls, Hefferline e Goodman è quello di riportare le persone a sentirsi attraverso il “riconoscimento” delle proprie sensazioni corporee (ed ancora prima quello di essere un corpo!); di come ognuno di noi contatta l’ambiente: per esempio con il proprio modo di respirare; attraverso l’espressione delle proprie emozioni: di gioia, di dolore, di noia, di attesa, di paura etc…; attraverso la consapevolezza dei propri bisogni e del personale modo di essere nel mondo e in relazione con gli altri.
Nel qui dell’incontro terapeutico e nell’adesso del tempo vissuto insieme, c’è la possibilità di ri-prendere consapevolezza sul modo di interrompere il contatto con le altre persone, ritornando nel presente sulla stessa empasse del passato (e qui sta la differenza più eclatante con la prassi psicoanalitica tutta incentrata sul là ed allora); ed anche esplicitare il significato personale dei propri comportamenti (più o meno consapevoli) inserendoli nella storia e nella narrazione dei vissuti dell’individuo.
Lo stare nel qui ed ora così come si è avviene nelle sedute di psicoterapia della Gestalt non solo attraverso le parole – spesso complici, giustificatorie o ridondanti: aboutismo dicono i Polster – ma attraverso una visione olistica della persona in cui rientrano le posture, i gesti, la mimica, il tono della voce e tanti altri segnali che spesso rappresentano in modo più efficace, rispetto alla parola, la persona.
Nella terapia della Gestalt si cerca di giungere ad una integrazione dei diversi livelli dell’esperienza umana – cognitiva, corporea, sensoria, emotiva, immaginativa – senza privilegiarne qualcuno in particolare (come per esempio nella bioenergetica è il corpo sempre in figura).
Anche a livello teorico la Gestalt-Therapy integra in sé apporti provenienti da varie correnti di pensiero: dalla fenomenologia, alla autoregolazione dell’organismo di Goldstein, alla individuazione personale di Rank, all’esistenzialismo, lo psicodramma di Moreno, gli influssi di Reich etc.
Con questa ricchezza la terapia della Gestalt si affaccia sulla società nordamericana degli anni ’50 e si presenta tra le altre nuove psicoterapie come quella che ha in sé più possibilità di sviluppi futuri. Ed è proprio attraverso la terapia con i gruppi che la Gestalt ha la sua maggiore espansione e viene conosciuta da tantissime persone. Ma al termine psicoterapia di gruppo di Fritz Perls preferisce quello di esercitazione: infatti le sue dimostrazioni pubbliche, che resero così famoso il metodo gestaltico – soprattutto con l’esperienza di Esalen – non possono certo definirsi psicoterapie per la mancanza di continuità e quindi di un rapporto duraturo tra terapeuta e paziente.
Perls, di formazione psicoanalitica e sposato con Laura Polsner psicologa della Gestalt, dopo un lungo vagabondare sia geografico (dalla Germania al Sud-Africa, agli Stati Uniti, al Canadà), che culturale dove incontra molti eminenti terapeuti da cui prende in prestito concetti e tecniche, arriva a definire un metodo di fare terapia in gruppo. Così lo descrive James Simkin: “in una situazione di gruppo l’interazione si estende a più di due persone e il processo interattivo avviene tra diverse persone, oppure tra due persone e ciascuno dei partecipanti che entra nel processo quando si sente pronto a farlo. Nella terapia della Gestalt non è necessario evidenziare le dinamiche di gruppo, sebbene alcuni terapisti della Gestalt lo facciano”. (Simkin, 1975).
Tale affermazione è paradossale: parlare di terapia di gruppo e non occuparsi delle dinamiche che si muovono al suo interno; e tutto sommato è stato scritto pochissimo (in rapporto al ruolo che ha svolto il gruppo per la terapia gestaltica) sia da Fritz Perls che da altri autori della Gestalt sul gruppo – anche i Polster nel loro libro Terapia della Gestalt Integrata dedicano solo le ultime pagine alle modalità di lavoro e alle dinamiche con i gruppi – che invece si sono molto focalizzati sul rapporto e sul processo tra cliente e terapeuta.
La Terapia della Gestalt in gruppo e di gruppo.
Perls dopo una lunghissima esperienza di terapie individuali e di gruppo, giunge a stabilire la maggior efficacia del metodo gruppale. Nel momento dell’empasse, della lotta tra top-dog e under-dog, quando il paziente abitualmente si rifugia in modalità nevrotiche di contatto con il terapista, il gruppo può svolgere la funzione ostensiva di fargli vedere l’ovvio, di mostrargli che la maggior parte della sua infelicità è puramente immaginaria.
Nel tipo di terapia scoperta ed applicata da Perls l’individuo è sempre in figura e il gruppo riveste il ruolo di cassa di risonanza delle problematiche individuali o quello di contenitore delle ansie paralizzanti della persona che lavora. Il gruppo è una insostituibile fonte di sostegno ambientale che manca nella terapia individuale, e Perls lo utilizza come uno sfondo accogliente o frustrante che può sostenere i difficili passaggi terapeutici e a cui la persona in figura si può alleare: il gruppo sostiene l’autostima di chi sta sulla hot-seat. L’osservazione da parte di membri del gruppo di giochi in cui vengono recitati i ruoli di debole, di stupido, di piagnucolone, o di seduttore… facilitano la propria ricognizione di sé.
C’è inoltre una pressione del gruppo che svolge una funzione coterapeutica e che rende molto meno manipolativa la situazione da parte del paziente in confronto al setting individuale. Questa pressione è anche relativa al tipo di contesto che passa dalla relazione duale (paziente-terapeuta) e quella allargata, sociale del gruppo; e spesso i significati e le storie personali che emergono sulla sedia calda vanno al di là di una pregnanza individuale – la possibilità di fare gruppo sta proprio in un sentire e i in uno spazio comune: un NOI – per rivisitare una dimensione sociale.
Il gruppo diventa, quindi, il palcoscenico di fronte al quale, spesso la persona che va in terapia, si blocca.
Nella tecnica della sedia calda in cui Fritz Perls lavorava via via con volontari che si offrivano – quasi in un rito sacrificale! – il gruppo è comunque sullo sfondo e le interazioni degli altri partecipanti con il terapeuta o tra di loro sono limitate al massimo; ed anche il feedback non ha uno spazio sufficiente di espressione. La partecipazione del gruppo è più a livello di silenziosa autoterapia con un forte livello introiettivo per tutto ciò che fa o dice il terapeuta.
Ora, la sedia calda è diventata con il tempo l’elemento caratterizzante la Gestalt-Therapy, ma in modo molto acuto ci fanno notare i Polster, “è molto difficile discriminare tra quello che è lo stile terapeutico, dalla teoria su cui si appoggia”, e lo stile di una personalità così magnetica come Fritz Perls ha fatto molta strada!
D’altronde l’elemento della direttività del terapeuta è molto sviluppato nella psicoterapia individuale in gruppo e ciò favorisce, secondo alcuni autori, la passività del gruppo contrapposta alla eccessiva azione del terapista che in una atmosfera quasi magica fa accadere ciò che sembrava impossibile avvenisse!
La seconda generazione della Gestalt-Therapy inizia a focalizzarsi di più sulle dinamiche “di” gruppo. Il terapeuta diventa più interessato a far emergere dallo sfondo creativo elementi che possono essere utilizzati: 1) con la persona che sta lavorando (o giocando come dice M. V. Miller!); 2) come segnale per il terapeuta – non tener conto di questi segnali nel processo di gruppo può portare ad abbagli di cui ci si rende conto dopo -; 3) oppure come un elemento da sviluppare in seguito con altri membri del gruppo.
A livello di storia della terapia della Gestalt, è stata Laura Polsner Perls a introdurre le prime connotazioni di uno stile terapeutico diverso, più incline a confidare nel processo di gruppo, a lasciargli seguire il suo corso, ad essere non solo direttiva, ma anche flessibile. Laura controlla meno la situazione di Fritz e introduce nella terapia della Gestalt – ma direi in tutta la psicoterapia – la qualità della relazione con il paziente e con il gruppo, che è un qualcosa di impalpabile ed è riferito al tipo di atteggiamento ed alla capacità di fare contatto del terapeuta: tale caratteristica determina la buona riuscita di un esperimento molto più di tante tecniche.
Il passaggio definitivo dalla terapia individuale in gruppo alla terapia di gruppo avviene con la sedia calda fluttuante di Erving e Miriam Polster. Ecco come viene descritta questa tecnica: la mobilizzazione dell’interesse del gruppo verso una persona particolare è un fenomeno di gruppo positivamente organico. Esso è del tutto diverso dalla terapia individuale in gruppo perché sgorga naturalmente dall’introiezione del gruppo anziché dall’offrirsi di qualcuno come volontario, come avviene nella sedia calda. Con la sedia calda fluttuante si realizzano, secondo i Polster, quelle condizioni più simili alla vita di tutti i giorni in cui sono contemporaneamente presenti più di uno stimolo e di un bisogno e spesso si è interrotti, o modificati nei propri obiettivi originari.
L’utilizzo di questa nuova modalità di rapporto di gruppo porta ad una diversa configurazione nel ciclo dell’esperienza teorizzata per primo da Perls. Se il primo modello prevede l’emergere del bisogno, la successiva soddisfazione e poi la fase del ritiro e quindi un nuovo bisogno avanza, ora il modello si complessifica e i livelli di risposta a bisogni compresenti fa si che ci si interrompa nella risposta ad un bisogno per darne ad un altro che nel frattempo si è formato: ciò corrisponde di più al tipo di società che stiamo vivendo. Un’altra differenza tra i due modelli è relativa al fatto che nel primo la soddisfazione del bisogno porta ad uno scaricarsi dalla tensione. Nel ciclo di esperienza che deriva dalla psicoterapia di gruppo di Polster, si può dire che la tensione del gruppo forma una figura sempre nuova.
Il gruppo, nella versione data da Miriam ed Erving Polster, richiama l’immagine del coro greco che risuona di tante voci diverse, anche contradditorie, ma che nell’insieme sostengono la presenza e la fatica di chi sta nel mezzo a lavorare: il gruppo ha la propria saggezza, che va al di là della saggezza del leader preso a solo.
Con la terapia della Gestalt di gruppo si realizza, anche a livello esperienziale, quell’idea di gruppo come organismo unitario, come campo già descritto da Kurt Lewin.
Il gruppo può essere considerato come un individuo in cui i membri sono le sue parti costituenti: tale affermazione è speculare a quella che considera l’individuo come un gruppo: quando lavorare con un individuo ci troviamo a fare terapia di gruppo, nella misura in cui sono compresenti multipolarità e bisogni talora contrapposti. – Tra i membri di un piccolo gruppo girano emozioni e stati d’animo che lo orientano e lo influenzano: ogni gruppo terapeutico ha la sua diversa caratura e tonalità affettiva determinata sia dalle esperienze di provenienza dei membri, ma anche da qualcosa di meno definito come il clima del gruppo stesso, dal tipo di comunicazione utilizzato, dal processo individuale e gruppale.
I successivi sviluppi teorici ed esperienziali della psicoterapia della Gestalt (Zinker, Nevis, Kapner etc.) hanno ancor più approfondito – attraverso tecniche specifiche (esercizi di gruppo, immaginazioni guidate, etc.) e la ripresa di altre già esistenti, per es. lo psicodramma di Moreno – la dimensione gruppale.
Il gruppo di Gestalt diventa così il luogo di rappresentazione dei conflitti interni e di relazione con gli altri: ciò può essere agito attraverso le drammatizzazioni, le rappresentazioni di situazioni inconcluse, il passaggio dal lavoro con la polarità duale (top-dog / under-dog) alle multipolarità. La costruzione della scena corrisponde spesso alla oggettivazione, da parte del paziente, dall’empasse. Il blocco intrapsichico da luogo mentale si trasforma in un oggetto esterno che può essere visto, ascoltato, aggredito. Nella terapia di gruppo il terapeuta non è più l’unico centro di interesse del cliente: c’è la possibilità di ridistribuire sul gruppo energie e proiezioni, oppure di trovare un contatto deflessivo con membri del gruppo rispetto a quello troppo caldo con il terapeuta che può essere per il momento al di fuori dei confini dell’io di quella particolare persona.
Accanto alle possibilità ci sono anche aspetti negativi e rischi che sembrano sussistere molto meno nella terapia in gruppo: possono, per esempio, formarsi nuovi introietti” e norme di comportamento – del tipo: bisogna essere se stessi – e se ciò all’inizio può dare un senso di appartenenza e di imitazione di qualcun altro, con il passare del tempo se tali introietti non vengono masticati, risultano degli ostacoli nel processo di individuazione delle persone. Il gruppo sviluppa inoltre una forte coesione e una confluenza che a volte determina nei partecipanti il vivere il gruppo come la vera vita e lo screditare ciò che succede al di fuori, con conseguente delusione rispetto ad una idealizzazione eccessiva dei rapporti nel gruppo.
Le due modalità qui descritte – in gruppo e di gruppo – della Psicoterapia della Gestalt con i gruppi hanno, secondo il mio parere, entrambe una validità di approccio e di utilizzo. Al di là delle linee evolutive del pensiero e della prassi terapeutica – non è detto che ciò che avviene dopo è sempre meglio! – mi sembra che le due modalità descritte possano essere utilizzate in contesti e con clienti (o pazienti) diversi. Per es. la Psicoterapia della Gestalt in gruppo è necessaria quando il livello di ansia del paziente è molto forte e il processo va seguito molto da vicino dal terapeuta e contemporaneamente il contenimento del gruppo non è così certo; altra situazione in cui utilizzare, secondo la mia esperienza, la P. d. G. in gruppo è relativa a modalità distruttive del gruppo che proietta su un suo membro gli elementi negativi fino ad espellerlo dal gruppo stesso (capro-espiatorio) o infine, quando il gruppo non è ancora amalgamato e coeso e quindi la figura del conduttore può mediare molte dinamiche.
E’ attraverso la propria esperienza e sensibilità che il terapeuta della Gestalt può stabilire quali modalità – in gruppo o di gruppo – siano più opportune: ed è nell’alternarsi tra figura e sfondo che si costruisce il processo terapeutico.
Dentro il cerchio magico: il processo, il terapeuta, il set.
L’esperienza dentro un gruppo di Gestalt richiama: un senso di calore, di tepore benefico e rilassante, un clima uterino in cui tutto ciò che accade non è pericoloso.
Anche un’immagine può visualizzare lo stare nel gruppo: mi sembra di camminare attraverso una stanza con tanti specchi – come ce ne sono nei luna-park – ed ogni specchio mi rimanda un aspetto di me che prima non vedevo (per esempio il vuoto di capelli sulla nuca!), che non conosco, che non accetto, che piacevolmente mi sorprende, che mi fa paura!
Queste due metafore introducono i due elementi portanti per la terapia della Gestalt: la sicurezza o il sostegno e l’esperimento. Lo sperimentare, nel luogo sicuro della terapia, nuove possibilità del sé, rappresenta l’obiettivo principale per la psicoterapia della Gestalt: “nel nostro lavoro cerchiamo di creare possibilità in cui l’individuo da un lato si sperimenti in contatto con, dall’altro si riconosca come colui che ha esperito. Egli può in tal modo aggredire solo gli elementi che vuole introiettare nel Sé, abbandonando nell’ambiente tutto ciò che attualmente non gli appartiene”. Attraverso un lungo viaggio di differenziazione del vecchio modo di autopercepirsi e di proporsi nel mondo, l’individuo può arrivare ad integrare, o a far coesistere, aspetti di sé, o i diversi Sé come dice Erving Polster, che erano stati abbandonati, derisi, ritenuti inadeguati dal soggetto o da altri importanti per lui.
Ma il processo che porta a queste nuove consapevolezze, quel processo che come dice Perls va dal sostegno ambientale all’autosostegno, è tutt’altro che lineare ed è semplicistico considerare possibile che ognuno può diventare ciò che vuole, poiché in realtà ci sono caratteristiche predominanti che orientano il nostro essere nel mondo.
Nella teorizzazione di Goodman – ed anche nella pratica di Perls tutta incentrata sulla consapevolezza istantanea – il Sé è “il complesso sistema di contatti necessario per l’adattamento in un campo difficile”, questo Sé processuale sembra passare di contatto in contatto in una continua “differenziazione tra le risposte obsolete e il comportamento unico e nuovo che è necessario”. (Perls, Hefferline, Goodman 1951).
In realtà nel processo terapeutico c’è il tempo e la calma necessaria per ritornare più e più volte sulla stessa Gestalt incompiuta. L’individuo ripete il ruolo stereotipato – di debole oppure di seduttore o di antipatico – che perlomeno gli dà un’identità! – ruolo non più aggiornato, relativo ad un vecchio contratto con se stesso e con gli altri – devo essere un bravo bambino! per esempio – cercando di assomigliare ad una scolorita immagine di eroe che ormai non serve più.
La terapia della Gestalt introduce l’emergenza in un luogo sicuro: l’individuo, con il sostegno del terapeuta e del gruppo, si può sperimentare nella scoperta di un nuovo – o forse antico! – SE’ con eccitazione ed ansia.
Le chiosature intorno ad una tematica della propria vita – per esempio la difficoltà di rapporto con il padre è molto diffusa tra i tossicodipendenti – sulla quale l’individuo continua a cercare risposte senza trovarne soddisfazione (come quei relé elettrici malfunzionanti che non chiudono il circuito e continuano a dare l’impulso), portano a sondare tutte le sfaccettature del problema, ad esplorare la tematica individuata nelle diverse funzioni di contatto e nei cinque livelli dell’esperienza: fino a saturare la tematica, a costruire un ponte tra presente e passato, permettendogli così di superare o ammorbidire l’empasse iniziale. La persona può così scoprire anche l’altra polarità, cioè gli elementi creativi prima bloccati nella fissazione nevrotica.
La figura del padre, per riprendere l’esempio, viene ampiamente rivalutata dopo un percorso di Comunità dal ragazzo ex-tossicodipendente e proprio il padre viene ricercato per chiedergli consigli, per parlare con lui, per sentirlo più vicino. Il cambiamento, inoltre, in un’area del Sé – rapporto con il padre – modifica anche altre aree ad essa connesse – per esempio il rapporto con il maschile e di conseguenza con il femminile. L’emergenza cronica di basso livello si è ora tramutata in una nuova possibilità: il SE’ ha acquisito altre varietà: nello sfondo può rientrare una figura piena e definita.
Nella terapia di gruppo, ancor più che in quella individuale, è possibile far sperimentare al soggetto nuove possibilità: sia attraverso l’uso di tecniche – amplificazione del sintomo o agire la polarità opposta – sia attraverso quella pressione di gruppo che avevo citato sopra. Nel gruppo l’individuo può avere a disposizione elementi di contatto che mancano nella terapia individuale: per esempio la tecnica della sedia vuota può trasformarsi nell’incontro reale con una persona su cui il soggetto proietta interruzioni e paure. Il blocco intrapsichico può portare ad una relazione interpersonale con elementi vivificanti di un incontro – anche con i rischi di dinamiche laterali che si innescano.
Il gruppo risponde anche a quella funzione fondamentale dentro e fuori le stanze della psicoterapia: il riconoscimento.
Il soggetto può essere visto, ascoltato, toccato, lì davanti a tutti, lui si sente ridicolo o fa commuovere tutti con le esperienze: è lì con la sua profonda dignità umana davanti al gruppo che rappresenta il mondo.
Nel gruppo terapeutico si intrecciano i processi individuali dei membri e il processo collettivo del gruppo come entità che ha una propria storia.
Il macroprocesso individuale è stato descritto da Fritz Perls nei cinque livelli: dei cliché, dei ruoli, dell’empasse, di morte, di vita; Miriam Polster ha descritto quattro fasi della sequenza terapeutica individuale: scoperta, adattamento, assimilazione, integrazione. Miriam ed Erving Polster hanno poi definito il microprocesso individuale attraverso i tre momenti: consapevolezza, contatto, esperimento.
Anche il gruppo attraversa un processo costituito di varie fasi e passaggi. Quattro mementi ritengo si susseguano nel processo gruppale: conoscenza, confluenza, aggressività, differenziazione. Queste quattro fasi le ho desunte sia dalla mia esperienza come studente ed anche da quella di conduttore di gruppi di tossicomani.
Il gruppo passa da una fase in cui c’è una forte intensità emotiva e molti scambi interpersonali di esperienze che portano a condividere, ad un momento successivo in cui il concetto di sé dei partecipanti diviene più reale.
E’ importante, inoltre, che sia il terapeuta che i membri del gruppo sentano una crescita, una modificazione degli stereotipi iniziali e se ciò non avviene probabilmente ci sono dei blocchi a livello di relazioni interpersonali che incistano la patologia: c’è qualcosa che non va cambiato altrimenti c’è un’angoscia che non trova compensazione (come nelle famiglie dove ci sono problematiche psicotiche o tossicomaniche).
C’è poi un ciclo del gruppo che si realizza in ogni seduta terapeutica attraverso i lavori individuali o di gruppo. Nel microprocesso di gruppo c’è un tema che inizia e poi prende corpo ed ha una sua evoluzione che si snoda, durante la seduta, colorandosi di storie, vissuti, emozioni, ricordi.
Il Terapeuta.
La risorsa principale che il paziente trova nella terapia è il terapeuta stesso. Nello spazio transizionale – come direbbe D. Winnicott – della seduta terapeutica ci si scambia vissuti, emozioni, sensazioni: oggetti che costituiscono la materia prima della terapia.
Dal tipo di contatto e dalle modalità di tale relazione tra pazienti con il terapeuta (ed anche con il gruppo, ove c’è), si deduce a che punto è il processo terapeutico e con che tipo di patologia si ha a che fare.
I concetti di transfert e controtransfert psicoanalitici sono stati sostituiti nella terapia della Gestalt con quello meno tecnico e più umano di contatto. Che cosa voglia dire ciò si desume dalle affermazioni di Erving e Miriam Polster che dicono che il terapeuta è strumento stesso di terapia.
Il terapeuta della Gestalt è profondamente presente nella relazione: egli è lì come persona intera e non scinde la sua sensibilità e umanità dalla sua professionalità e l’uso delle tecniche: la tecnica è un trucco, un giuoco di prestigio, che dovrebbe essere utilizzato solo in casi estremi. La Gestalt ha ulteriormente proseguito la strada intrapresa da Carl Rogers con l’empatia: ma il terapeuta della Gestalt può essere anche frustrante, se ciò corrisponde ad un suo sentire, oltre che accettante fino in fondo. Ed è proprio il manifestare se stesso, le sue emozioni, le preoccupazioni (certamente non sempre, ma quando lo ritiene opportuno) e l’utilizzare ciò come elemento di contatto con il cliente che fa procedere la terapia: “quando il terapeuta si inserisce, non solo rende disponibile per il paziente qualcosa che già esiste, ma anche facilita nuove esperienze relative sia alla sua persona che a quella del paziente”. (Polster 1973).
Il terapeuta è attento sia a quello che succede davanti a sé (nell’individuo o nel gruppo) sia a ciò che succede dentro di sé, cercando di collegare questi due piani seguendo il paziente nel suo processo.
Non c’è bisogno di spingere il fiume: la modalità di relazione in Gestalt-Therapy è allora quella di presenziare ad un processo in atto costituendo o lo schermo di proiezione per il paziente (soprattutto all’inizio della terapia) o facilitando ciò che sta per succedere – Simkin parla della funzione terapeutica come quella di una levatrice! – ma solo quando la terapia supera l’aspetto tecnicistico e diventa un rapporto umano allora avviene un “incontro tra persone reali, reciprocamente interessate-interessanti” e che “non rappresenta solo un incontro vacuo di fantasmi”. (Menditto, Rametta 1980). Ed è proprio l’interesse del terapeuta nei confronti della vita dell’individuo che ha davanti a sé al di là dei ruoli già definiti prima (il paziente si sente tale e sente che non può essere altro che un malato) – che può far decollare la relazione terapeutica e farla uscire da un rapporto come se. L’interesse del terapeuta è speculare alla ripresa di interesse del paziente per se stesso e per gli altri.
Per il terapeuta che lavora con i gruppi c’è una quantità maggiore di inputs da tenere in considerazione rispetto alla terapia individuale – la presenza del coterapeuta serve proprio a raccogliere ciò che si muove nello sfondo – anche se può contare sulle stimolazioni e contributi del gruppo stesso.
Il terapeuta di gruppo deve cercare di far emergere tutte le voci presenti nel gruppo stesso, dando così modo a tutti i presenti di esprimersi (certamente chi lo vuole fare) evitando che qualche membro del gruppo manipoli o monopolizzi per suoi fini esibizionistici o patologici.
Le dinamiche del potere si ripresentano nel gruppo terapeutico come nei gruppi naturali. Ciò accade attraverso una distribuzione dei ruoli più o meno consapevoli – il leader, il capro-espiatorio, accoppiamento, e si presentano nel tipo di rapporto con i terapeuti. Le dinamiche di potere possono essere altamente distruttive ed è compito dei terapeuti di rendere consapevole ciò che a volte funziona in modo automatico.
Il terapeuta può essere affiancato, come ho già detto, da un coterapeuta, sia per esigenze di numero dei partecipanti, o di particolari situazioni nel gruppo. La presenza del co-terapeuta complessifica ancor più la terapia di gruppo e la avvicina, specie con una coppia di terapeuti maschio e femmina, a situazioni già vissute in famiglia o nella realtà quotidiana dai membri del gruppo.
Il Set.
Il set dove si incontra il gruppo terapeutico è un fattore molto importante.
La stanza, il suo arredamento, la luce, la posizione di quadri e suppellettili, sono elementi che fanno parte del sostegno ambientale e che danno nel tempo la continuità (o la non-continuità, se subentrano cambiamenti) e la familiarità del luogo che si frequenta: ed è proprio il sentimento di appartenenza che può sviluppare una progressiva fiducia nei partecipanti.
Un elemento che accomuna i membri di un gruppo di Gestalt è la loro visibilità: ognuno può decidere se parlare o stare zitto ma si è tutti comunque visibili agli occhi degli altri, nel presentarsi come persona con il proprio corpo, il modo di stare insieme agli altri, le posture, il modo di vestire, di gesticolare etc.
Ancora più della descrizione scenica è importante la posizione in cui si lavora: seduti in circolo sulle sedie oppure seduti o sdraiati (a seconda di inibizioni personali!) su materassi e cuscini. La distanza da terra e/o il movimento del corpo per i membri di un gruppo Gestalt è un elemento da tenere in considerazione e sicuramente la posizione sulle sedie favorisce meno un certo rilassamento corporeo, e c’è un minore contatto con il terreno.
Miriam Polster ci ha fatto notare come si colloca la persona nello studio, come si siede, come si inserisce se si costringe in maniera tale da inserirsi nell’ambiente o se si mette in una posizione che è l’ambiente ad accoglierla.
Già dai primissimi minuti della seduta il terapeuta può cogliere tutta una serie di segnali su come ogni individuo nel gruppo aggredisce l’ambiente e utilizza il proprio sistema scheletrico-muscolare, il modo di respirare, se sta vicino o lontano dagli altri, qual’è la distanza dal terapeuta, se è alla ricerca di un contatto fisico, se è un isolato etc.
La scena iniziale (ed in ogni seduta ci sono continuità e differenze) è quindi un set animato, dove la persona attraverso il corpo ed i suoi movimenti lancia frecce – come dice Erving – e così può iniziare la relazione terapeutica.
Dott. Andrea Bramucci
Pubblicato su “STUDI URBINATI”.