Studio di Psicologia e Psicoterapia "Ecotono"

- Dr. Andrea Bramucci

EDUCARE È INUTILE?

Scorrendo alcuni articoli di quotidiani da me raccolti durante la scorsa estate, uno in particolare mi ha colpito: una notizia che per qualche (strano?) meccanismo avevo scansato – gli psicoanalisti direbbero rimosso! – La notizia è del 23 agosto e riguarda la pubblicazione negli Stati Uniti di un testo scientifico scritto dalla dott.ssa Judith Rich Harris psicologa, dal titolo “The Nurture Assumption” – che con sommaria traduzione può rendersi in italiano come “L’ipotesi educativa” oppure letteralmente “Supposizione sulla crescita”.

Tale notizia è riportata dal quotidiano “La Repubblica” a firma di Antonio Polito con un titolo ancor più eloquente: “Genitori, educare è inutile”: resa senza condizioni!

La tesi della dott.ssa Harris – premiata già da numerevoli Istituzioni statunitensi – è da un lato banale, dall’altro affascinante: sicuramente non senza conseguenze!

Sostiene la Harris che – e qui mi affido all’articolo citato – non è la famiglia di origine a dare un’impronta precisa, un indirizzo chiaro al figlio/a – come finora, a gradi diversi gli esperti del settore educativo e formativo ci hanno detto – bensì l’ambiente sociale frequentato e vissuto, i coetanei ed altre valenze esterne non controllabili o influenzabili dalla famiglia stessa. In pratica la cogenza dei messaggi familiari è quasi per nulla incidente sulle scelte e sui comportamenti e valori di bambini ed adolescenti, confrontati ai valori e atteggiamenti assorbiti quasi a livello epidermico dall’ambiente circostante attraverso codici e linguaggi sconosciuti ai genitori e di cui non conoscono le modalità.

La dott.ssa Harris porta a sostegno della sua teoria una serie di dimostrazioni e di esempi in cui al di là del trasferimento del patrimonio genetico, ben poco accomuna genitori e figli.

D’altronde il rapido cambiamento di linguaggio dei figli di immigrati, oppure la costanza di incidenza di soggetti minori devianti indipendentemente dalle cure genitoriali ricevute, o ancora cambiando contesto la “fioritura” dei nostri figli – la cosiddetta sindrome di Cenerentola – che da scontrosi e timidi in ambiente familiare diventano socievoli ed estroversi in situazioni esterne, sono fenomeni studiati e protocollati che permettono a questa (nuova?) teoria di avere una base osservabile e confrontabile.

“La tesi sostenuta dalla studiosa americana è che i bambini non impegnano le loro energie per diventare come gli adulti che vedono in casa, ma si concentrano nella fatica di farsi accettare dalla comunità di coetanei che hanno intorno” (La Repubblica 23/08/98) con i quali costruiranno il loro futuro.

La tesi quì espressa mi piace, è buona e oserei dire magari avvenisse così, considerato il rinchiudersi nel guscio familiare di tanti adolescenti nostrani! Ed inoltre sapevamo già da tempo che ragazzi e ragazze cercano fuori di casa conferme alla propria autostima: dov’è quindi la novità? Prima di procedere nelle critiche voglio leggere – quando sarà! – la traduzione in italiano di questo testo.

Ma già da oggi i corollari dell’ipotesi – più che tesi! – esposta, mi rendono molto perplesso – come lo è l’autore dell’articolo su “La Repubblica”.

Ogni teoria scientifica – da cui all’inizio siamo sempre intimoriti! – porta con sé conseguenze sociali e avvalla o controbatte le tendenze di un’epoca.

 

VEDI ALLA VOCE: EDUCARE

Se siamo conseguenti alla teorie della Harris risulta che: la famiglia conta solo per i geni – sembra che tutto sia già scritto nei geni: dall’istinto materno alla fedeltà tra coniugi! – L’ambiente esterno e i coetanei sono l’elemento più influenzante nella crescita di bambini ed adolescenti quindi segue che – come in un teorema di geometria! – è inutile come genitori affaticarsi nel dare una buona “educazione” – ma che vuol dire? – ai figli, ed è indifferente il comportamento genitoriale poiché non dipende da ciò la formazione del minore.

Finalmente liberi dai sensi di colpa e non più preoccupati – e a volte angosciati – per ciò che può riservare il futuro ai figli, i genitori possono rilassarsi e dedicarsi completamente alla carriera o agli sports pomeridiani!

“Forse – così conclude Polito il suo articolo – questa teoria è anche vera, ma non è per la sua solidità scientifica che avrà un grande successo”.

Al di là delle possibili critiche alla radicalità di questa teoria molto nord-americana – ricordiamo bene le polemiche con il behaviorismo skinneriano! – sicuramente il suo primo e indiscusso merito è quello di portarci a formulare delle domande sul tema dell’educazione: parola che nei secoli ha subito varie trasformazioni di senso e che contiene molti connotati ambigui.

Che cosa significa educare?

“Formare, sviluppare riferito alle qualità naturali e intellettuali o morali di un giovane, indirizzando l’apprendimento nel modo ritenuto migliore per assicurare la trasmissione dei valori considerati essenziali alla generazione successiva”. (Dir – Dizionario italiano ragionato).

Questa lunga definizione ci pone davanti un compito arduo, spesso difficile e ansiogeno; di fronte al quale – come genitori – siamo portati a stabilire norme precise e consigli ai quali forse non crediamo neanche noi: e allora in questo senso educare è davvero inutile!

Presi dal nostro ideale di dare una “buona educazione” iniziamo a instillare, a riempire – di nozioni, di concetti morali, di tante altre parole – la testa e a modellare i comportamenti dei nostri figli, fino a quando ormai abbastanza grandi loro capiscono che la coerenza dei genitori – tra il dire e il fare – è ben lungi dall’essere un valore perseguito.

Ma il termine “educare” contiene in sé, per estensione, un nucleo di significati provenienti dalla radice verbale latina “e-ducere” cioè: trarre fuori, portare fuori, guidare.

Ed è proprio il concetto di guida che ci può aiutare ad uscire dalle secche di un’educazione sclerotizzata e sperimentare una diversa – non nuova ma dimenticata – genitorialità.

Amplifico un po’ la metafora: la guida è colui che ci “porta fuori” dai luoghi conosciuti – e non più stimolanti – che ci fa strada o che ci indica “la” strada, che ci ostenta i pericoli, che ci sprona o ci sostiene durante il cammino e, infine, che riconosce quando l’allievo è pronto per andare da solo. Una guida attenta è anche capace di adeguarsi ai ritmi e ai tempi e ai bisogni della persona che ha vicino. Il genitore – al pari di una valida guida – indica ai figli il percorso, avverte dei pericoli, sta a volte davanti al figlio affinché ripercorra alcune tappe, altre volte lo sostiene al suo fianco, oppure gli tiene la mano nei passaggi più difficili; poi lo lascia andare e inizia a guardarlo da lontano: ora il figlio lo ha superato ed è diventato lui stesso una guida per se stesso e per altri.

 

CHI EDUCA CHI

Il terzo significato del verbo “educare” è: trarre fuori.

Educare è tirare fuori: estrarre come da una miniera di pietre preziose! Dare tempo e attenzione affinché il bambino o l’adolescente possano esprimere le proprie potenzialità.

Educare è anche creare le condizioni adatte che favoriscono e non comprimono gli interessi, i valori, le idee intrinseche nel soggetto più o meno piccolo.

L’arte maieutica – della levatrice come dell’educatore – è proprio insita nel dare possibilità affinché l’altro – e in questo casa l’altro è in una posizione subordinata e di necessità – si “manifesti”, si “presenti” e ciò, a volte, può tradursi in uno “scacco” per noi genitori perché ci aspettavamo e volevamo qualcos’altro.

Nella maieutica c’è un interrogarsi su quelli che sono i problemi – ma quì è più opportuno il termine “bisogni” – e attraverso un percorso di domande – a se stesso e agli altri – si arriva a soluzioni creative, non pre-confezionate: in pratica, cari genitori, pochi consigli e più gioco di squadra!

L’arte maieutica – dimenticata e forse volutamente abbandonata da una società frenetica come la nostra – coinvolge nella sua ricerca perlomeno due persone e nella cosiddetta educazione perlomeno due persone sono sempre in relazione.

La maieutica è l’interrogarsi, il non essere mai certi e mai sazi del proprio esistere e del proprio sapere: è la metafora delle relazioni umane in cui ogni soggetto coinvolto entra nel processo di cambiamento che lo voglia o meno.

Nel rapporto tra genitore e figlio/a se al bisogno di emancipazione del secondo non è collegato un bisogno di scoperta e di nuove modalità di relazione del primo, ciò si traduce in un dialogo tra chi interpreta due o più personaggi e non tra esseri umani.

La capacità di mettersi in gioco del genitore ci riporta ai significati del processo educativo: in realtà – lo abbiamo sempre saputo – anche il figlio educa il genitore. Lo guida con i suoi pianti, lo istruisce con i suoi discorsi, lo provoca e gli fa vedere che è cresciuto con i suoi conflitti, lo esalta con le sue conquiste scolastiche, lavorative o sportive!

Il genitore che non è disposto a farsi “educare” dal figlio/a, cioè a farsi guidare, a farsi tirare fuori la sua parte di persona attenta, consapevole e non sempre accondiscendente, si perde tante possibilità.

La capacità di “stare nella relazione” tra genitori e figli si traduce nella capacità di non negarsi, di viversi i sentimenti – anche quelli non desiderati – di vivere e accettare le reciproche responsabilità come un’esperienza eccitante.

 

LA RESPONSABILITA’ E’ DI TUTTI!

Se ritorno con occhi meno offuscati dalle mie conoscenze psico-pedagogiche alla teoria della dott.ssa Harris, posso ammettere che essa certifica un dato evidente: la famiglia moderna e i suoi messaggi hanno sempre meno presa – perlomeno nel mondo occidentale – sui figli. L’educazione – costituita dai rapporti, contenuti e tempi condivisi con qualcun’altro – dei figli è spesso affidata ad altre agenzie o contesti di relazione: la scuola, le associazioni sportive o parrocchiali, gli amici, le sale giochi e troppo spesso TV e computer.

Poi arriva a casa il genitore e inizia a dettare legge – la “sua” legge – senza ascoltare e senza la consapevolezza di quanto ha prima delegato – non è una colpa, sono vincoli a cui siamo tutti sottoposti! – e che ora vuole riprendersi.

Allora come genitori oscilliamo tra un atteggiamento di competizione con le situazioni vissute all’esterno dai figli – o addirittura cerchiamo di imitarle – oppure con un atteggiamento di chiusura verso i messaggi che provengono dalla società, così invasivi così, a volte, violenti!

Il genitore sembra allora rinchiudersi in una solitudine educativa e in una incapacità di esprimere i propri disagi anche ai suoi coetanei che vivono situazioni simili alle sue – tale aspetto è stato da me più volte riscontrato in gruppi di auto-aiuto di genitori di figli adolescenti – Ma la teoria della dott.ssa Harris – per quel poco che ne so – e forse suo malgrado, ci dà una preziosa indicazione.

Se il processo educativo di bambini ed adolescenti è sempre più distribuito tra tante situazioni extrafamiliari – facendo attenzioni a non giustificare una delega totale da parte dei genitori! – allora tutti – genitori, educatori e tutti gli adulti – siamo responsabili – ognuno nel proprio ruolo – di mandare segnali positivi e di farci carico di situazioni nei confronti dei nostri simili e in particolare dei “figli” – come succedeva nell’antico villaggio – senza scaricare o senza dire: “Ci penserà qualcun’altro!”.

La classica dicotomia famiglia – società è ormai sempre più flebile.

Se la configurazione standard di famiglia è oggi molto meno definita, ciò non vuol dire che non esiste più il bisogno di processi educativi, ciò vuol dire che essi vanno distribuiti e affrontati con nuova attenzione e responsabilità di tutti sia verso i “figli” – da qualunque parte del mondo essi provengano – sia per fondare una nuova, e più aderente ai tempi attuali, genitorialità.

 

ANDREA BRAMUCCI

 

 

Pubblicato su “ROCCA”

Condividi questo post

Condividi su facebook
Condividi su google
Condividi su twitter
Condividi su linkedin
Condividi su pinterest
Condividi su print
Condividi su email