L’ecologia nasce nel 1866 come una partizione della scienza biologica. Oggetto del suo studio è la relazione che intercorre tra gli organismi viventi ed il loro ambiente naturale: “L’ecologia è lo studio dell’economia e del modo di abitare degli organismi animali. Essa include le relazioni degli animali con l’ambiente organico ed inorganico, soprattutto i rapporti positivi o negativi, diretti ed indiretti con piante ed altri animali: in una parola tutta quella intricata serie di rapporti ai quali Darwin si è riferito parlando di condizioni della lotta per l’esistenza”. Questa la definizione classica di Ernst Haeckel (1).
Accanto a questa notazione scientifica, che pone l’ecologia nell’universo delle Naturwissenschaften, possiamo registrare una pratica ecologica che, se prende spunto dalle scoperte della scienza empirica stessa, si rivolge, poi, alla elaborazione di una teoria sociale (2) rientrando così nell’ambito delle Geisteswissenschaften. Nel corso dell’ultimo ventennio abbiamo perciò assistito al costituirsi di una nuova scienza sociale: l’ecologia politica. Questa si è presentata prima come denuncia (3), delle distruzioni ambientali e dell’inquinamento provocato dalla società industriale, poi come critica organica alla economia politica sia marginalista che marxista (4); infine come proposta politica per costruire una nuova società. La distinzione ora fatta tra una ecologia scientifica ed una ecologia pratica, se è valida da un punto di vista logico, quale schema semplificativo di riferimento, e da un punto di vista storico, può risultare, tuttavia, ad una analisi più approfondita, in parte artificiosa in quanto non ci dà un’esatta descrizione del fenomeno ecologico. In effetti risulta oggi difficile separare l’ecologia quale Naturwissenschaft da un ecologismo pratico (5) appartenente alle scienze dello spirito, quando in realtà questi due aspetti si compenetrano strettamente l’uno con l’altro. I risultati tecnico-scientifici raggiunti dalla scienza ecologica diventano subito proposte pratiche, possibilità di azione politica all’interno della società; mentre dall’altra parte le “battaglie” condotte dagli ecologisti, contro gli inquinamenti e gli sprechi, stimolano studi e ricerche intorno a certi argomenti di più immediato interesse pratico (problema dell’energia, del riciclo rifiuti, dell’eutrofizzazione, per citare solo alcuni esempi). Questa dialettica tra la forma gnoseologica e la forma pratica dell’ecologia, fonda un campo eterogeneo di esperienza dove i contenuti e le idee circolano liberamente costituendo così un diverso approccio sia alla conoscenza che all’azione pratico-morale. Nel mio discorso intorno all’ecologia e alle sue forme è ora necessario elencare alcune categorie ecologiche fondamentali.
- Globalità-tempo biologico-limite.
Nel panorama delle scienze costituitesi durante il secolo XIX, l’ecologia riveste un ruolo anomalo e unico. Innanzitutto l’ecologia è una scienza antibaconiana; essa non utilizza verifiche sperimentali di controllo alle sue proposizioni scientifiche, “non ha bisogno di costruire situazioni che non si danno in natura, a differenza della chimica, in cui si operano accostamenti di sostanze e di eventi quali non avvengono in natura” (6). In secondo luogo il modello specialistico che caratterizza tutte le scienze che si sviluppano in questo secolo, non informa per nulla il discorso ecologico. Al contrario, l’ecologia, come detto sopra, nasce sì come una partizione della biologia, ma ben presto allarga sempre più la sua sfera di interessi fino a comprendere un immenso orizzonte di conoscenza: la Natura tutta.
“L’ecologia che è al vertice della gerarchia delle scienze della vita, utilizza l’intero contenuto empirico di tutte le scienze sottostanti nella gerarchia oltre che, naturalmente, i concetti che le sono contestualmente peculiari (7). Dunque, ecologia come vertice delle scienze della vita, ma anche crocevia, punto d’incontro di un patrimonio scientifico che proviene da svariati campi del sapere: zoologia, geografia, botanica, metereologia, etologia, microbiologia, genetica, termodinamica, ecc.
L’interdisciplinarità caratterizza il discorso ecologico, il quale assume dati, nozioni, informazioni, da tutta una serie di scienze empiriche che partecipano, in modo inconsapevole, alla formulazione dei protocolli ecologici. Rispetto alla parcellizzazione del sapere (8), soprattutto tecnologico, avvenuto nei secoli XIX e XX, l’ecologia rappresenta un modello di conoscenza nuovo e capace di produrre sintesi di pensiero che si prestano ad una visione organicista del mondo (9). Il modo di pensare ecologico è informato da un atteggiamento olistico nei confronti della natura e delle azioni umane ad essa rivolte (10). “Gli studi ambientali ed ecologici si sforzano di recuperare una dimensione globale e quindi di cercare gli effetti lontani di ogni intervento sul mondo” (11).
Nella ecologia è quindi presente una esigenza di globalità.
Il concetto di globalità è insito nello studio dei cicli naturali. L’ecologia ci ha dimostrato come l’intera natura vivente sia pervasa da cicli naturali (12), che si intersecano e si avvolgono a spirale uno dentro l’altro.
Ognuno di questi cicli naturali è orientato, cioè ha un verso, una direzione, e non è reversibile. Elementi o sostanze quali: azoto, ossigeno, acqua, passano da uno stato all’altro senza poter invertire le modalità dei passaggi esperiti in milioni di anni. Questo vettore direzionale presente nei cicli naturali, caratterizza il tempo biologico, il quale non è mai divisibile in frazioni uguali l’una all’altra, ma è ogni istante qualitativamente diverso e in ciò si oppone sia al tempo della fisica newtoniana, sia al tempo economico il quale assume che l’istante t sia sempre uguale e produttore degli stessi effetti dell’istante t’.
“Il tempo non è privo di direzioni preferite, (non è isotropo) come lo spazio. Il tempo possiede una direzione. Il concetto dinamico classico del tempo, con la sua reversibilità, non ha niente a che vedere con la realtà e con la natura” (13). Questa tesi è avvalorata dal concetto di entropia (14). L’entropia è la dispersione, la confusione dell’energia. E’ la capacità sempre minore per un sistema di produrre lavoro (in termini fisici), quindi di avere a disposizione materie prime o energia per compiere determinate attività. “L’entropia introduce in biologia il concetto di freccia del tempo, cioè l’esistenza di un verso privilegiato del tempo, dal passato al futuro, dall’entropia minore all’entropia maggiore” (15). Il pianeta Terra, considerato un sistema chiuso dagli ecologi, tende ad aumentare il suo grado di entropia fino ad uno stato di equilibrio finale in cui il disordine regnerà sovrano. Si tratta ora di decidere se si vuole accelerare a dismisura questo processo, continuando l’attuale distruzione e spreco sistematico delle risorse naturali, oppure se si vogliono introdurre dei limiti a quelle che Prigogine chiama “strutture dissipative”.
Un unico filo logico unisce la nozione di limite con quella di tempo biologico e con il concetto di globalità. La nozione di limite comprende in sé sia una percezione spaziale che abbraccia tutto il pianeta Terra e la sua atmosfera (effetto globalità), che una percezione temporale dei risultati e selle situazioni future innescate dalla smisurata crescita industriale e demografica (effetto tempo biologico).
Il consumo vistoso (17) delle risorse naturali (materie prime, energia, terre fertili), porterà ad una penuria di questi beni e farà insorgere lotte fratricide simili a quelle che, nei primordi della storia umana, si erano combattute tra i popoli allevatori e i popoli agricoltori per il controllo delle fonti e delle terre.
L’esplodere di guerre per la sopravvivenza costituirà secondo gli ecologisti, l’intorno del limite, parafrasando il concetto matematico, al quale ci stiamo avvicinando a grandi passi, se non si cambierà l’attuale rapporto con la natura. La nozione di limite alla crescita, espresso in primo luogo dai teorici del MIT (18), ci rimanda ad una idea di natura ambivalente: “Da una parte c’è una natura-procreazione che è di una generosità catastrofica, dall’altra parte c’è una natura-ambiente che è avara ed ha dei limiti ben precisi” (19).La società industriale con la sua enorme capacità di trasformazione ha distrutto gli equilibri esistenti tra questi due aspetti della natura; la nozione di limite espressa dall’ecologia apre un dibattito tra tutte le scienze sia empiriche che sociali. Il concetto di limite alla crescita rappresenta quindi il crinale della scienza ecologica: al di qua di questo ci sono i protocolli scientifici, al di là vi è il costituirsi di una scienza sociale.
- Ecologia versus economia
Mediante il concetto di limite l’ecologia invade il territorio dell’economia (20).Questa intrusione, già preventivata dall’interesse ecologico per la casa dell’uomo (oikos), supera l’aspetto meramente critico per approdare ad una nuova visione e gestione dell’economia nell’attuale società. L’economia politica impegnata com’è, soprattutto nella versione marginalista, a giustificare aritmeticamente le sue proposizioni (avvalorandosi di un metro di giudizio assoluto, quello del numero e del suo mito), non attribuisce alla natura un valore economico intrinseco. La natura, attraverso le sue risorse, entra nel processo di produzione umano con un valore economico nullo, ne esce, invece, sotto forma di merce vendibile, come natura trasformata, natura seconda, reificata, sottoposta alle leggi del mercato. La risorsa naturale, pur possedendo in sé un fondamentale valore d’uso, ha, prima di essere sfruttata come materia prima, un valore di scambio equivalente a zero. Il legno, per esempio, ricavato da un albero, acquista un significato economico (valore di scambio) attraverso il processo di trasformazione (lavoro umano), ma la sua essenza di legno ne rimane estranea. Il sistema economico non attribuisce alcun valore alle risorse naturali e al tempo biologico, riservando soltanto al lavoro umano un senso e la possibilità di attribuire valore: tutto questo è noto all’economia politica. Ciò che l’ecologia disvela è invece il mito che si cela dietro l’assunto che la natura abbia un valore economico equivalente a zero: una natura sempre prodiga di beni, infinita, quindi a valore zero, come ben ci insegna la matematica a cui la stessa economia è legata. Ciò si scontra con l’attuale progressiva mancanza non solo di materie prime, ma anche di acqua e aria pulita indispensabili per poter continuare la produzione industriale. Questi elementi acquistano improvvisamente una importanza fondamentale e vengono riciclati oppure ne viene limitato l’accesso. “I nostri concetti economici di base devono essere completamente rivisti. Il valore delle risorse naturali diventa oggi prioritario, la rinnovabilità una preziosa qualità” (21).Nei confronti dell’ambiente circostante la produzione industriale causa delle disutilità marginali (in contrapposizione alle utilità marginali) come le chiama Ezra Mishan (22), che spesso rendono inutile, proprio applicando le stesse leggi economiche, in termini di disinquinamento e di distruzioni di ambienti naturali, continuare un certo tipo di produzione. “Le attività che producono ricchezza ma distruggono sempre di più il patrimonio culturale creano un valore negativo, o valore dedotto. Non può esservi sviluppo economico senza uno sviluppo umano che lo preceda e lo accompagni” (23). La fede nel mito economico di una mancanza di limiti allo sfruttamento della natura, viene ancor più accentuato dal concetto di sviluppo, la sua opera di disvelamento delle categorie economiche, cercando di porsi come Verità dell’economia. Lo sviluppo economico è il totem della società industriale. E’ un aspetto irrinunciabile nella politica dei governi, sia di quelli a democrazia borghese, sia per i cosiddetti paesi socialisti. Lo sviluppo economico, nella sua originaria impostazione liberista, doveva distribuire ricchezze a tutti coloro che prendevano attivamente parte al processo di produzione, nonché appiattire le differenze economiche tra le diverse classi della popolazione.
Ma ciò non è avvenuto e non avverrà. La povertà non è un dato oggettivo e misurabile; al contrario della miseria, della sottoalimentazione, essa rappresenta uno scarto, una differenza sempre presente e sempre riprodotta da un sistema sociale che crea penuria (come direbbe Sartre) e ricchezze crescenti (24). Anzi il consumo stimola la competitività ed instaura una nuova povertà. Il nuovo bene economico da raggiungere è già superato quando la maggioranza della popolazione vi è arrivata. Lo scarto tra il povero e il ricco rimane, “la povertà si modernizza” come disse Ivan Illich (25), ma non scompare. Il circolo vizioso tra sviluppo economico e consumismo, per cui l’uno rimanda all’altro con un effetto di feedback positivo, conduce a definire la pratica dello spreco nella società industriale. Questa pratica rappresenta la massima distanza tra l’approccio economico e quello ecologico agli ecosistemi naturali. In questi ultimi lo spreco è inteso come sovrabbondanza, come eccesso di possibilità, non è mai comunque distruzione pura e semplice di materia vivente. Lo spreco invece è una pratica culturale. Esso è già presente nelle società senza scrittura, per esempio la festa segna un periodo di spreco di risorse alimentari o emozionali, ma le sue manifestazioni sono regolate da rituali magico-religiosi che ne limitano gli effetti. Nella società consumistica allo spreco è fatto carico di buon funzionamento della produzione e della commercializzazione delle merci. Il consumo si trasforma in spreco nella misura in cui il percorso della merce da prodotto a rifiuto diviene sempre più corto: posso chiamare questa legge fondamentale dello spreco ecologico.
La pratica dello spreco non è solo la negatività del sistema economico, ma anche la sua contraddizione; nella legge ora definita risulta chiaro che il percorso (si badi bene lineare e non circolare!) consumo-rifiuto, divenendo paradossisticamente sempre più corto induce ad uno sfruttamento opulento della natura fino al completo esaurimento dei beni naturali. La critica ai concetti di valore di scambio, sviluppo e spreco da me effettuata esige una ridefinizione, oltre che delle scelte economiche, anche un diverso comportamento verso la natura e la fondazione di un’etica ecologica.
- Ecologia ed etica: spunti per una riflessione.
La fondazione di un ecologismo etico è in realtà ancora tutta da definire, e queste mie vogliono essere soltanto delle note per aprire un dibattito, il più ampio possibile, all’interno della società.
Parlo di etica ecologica e non di morale; in questo sono discepolo di Italo Mancini, il quale, nella diversa collocazione tra morale ed etica, pone la prima come “riferimento all’area del valore, della differenza qualitativa, dell’imperativo; etica dice riferimento al comportamento sostanziale” (26). Non che l’ecologismo non abbia valori nuovi da affermare, ma mi sembrava presuntuoso e immaturo parlare di morale ecologica: una morale preformata sulla scienza empirica (si potrebbe fare un parallelo con la sociobiologia) e pronta poi per tutti gli usi possibili; ma soprattutto mi preme, ancora con Mancini, sottolineare la dimensione attiva, pratica dell’ecologia, volta a risolvere specifici problemi e quindi a “delineare capitoli di etica speciale” (27), che richiedono certamente dei giudizi di valore, nella scelta tra un costante aumento dell’entropia o la salvaguardia dell’ambiente naturale, ma che non deducono la totalità della prassi umana da un ricreato novello rapporto tra uomo e natura.
Ciò può sembrare in contraddizione con il concetto di globalità affermata nel primo paragrafo. Ma non è così. L’etica ecologista pur riaffermando la responsabilità umana verso la natura, e pur sottolineando il rapporto biunivoco tra azione umana ed ecosistemi naturali, rifiuta però, il ritorno alla natura inteso sia come prospettiva mitica, cioè come uno sfondo sul quale si stagliano le azioni ecologiste, sia come dimensione fideistica, l’uomo ecologico rischia di diventare una stortura ai comandi dell’ideologia; infine l’etica ecologica rifiuta quel mistificato ritorno alla natura attraverso l’imitazione di culture e valori tratti da altre epoche storiche o da altre società, considerando ciò una sterile nostalgia e soprattutto un forzato estraneamento alle difficili scelte da compiere in questi anni. Già André Gorz (28) in Addio al proletariato mise in guardia gli ecologisti nel considerare la Natura, come un nuovo mito, come già nel passato furono sia il progresso economico che la classe operaia.
All’alba del XXI sec. la coscienza ecologica accusa invece un malessere, una malattia presente che travaglia le relazioni tra uomo, singolo o in società, e natura e cerca di capire e s’è possibile di porvi rimedio. La coscienza ecologica è un prodotto della società industriale (29).
Inutili sono le ipotesi di confronto con le pratiche ecologiche attuate nelle società preletterate. Là infatti, la dicotomia natura-cultura non esiste, o perlomeno è poco accentuata; miti, tecnologie, riti, rapporto con l’ambiente, tutto ciò s’intreccia strettamente come in una maglia tessuta a più fili da un unico telaio. La tesi che la nostra cultura possa nuocere in maniera vistosa, attraverso la tecnologia, alla natura, ci allontana definitivamente dalle sincronie cicliche delle società preletterate. E proprio la tecnologia, che è stata portata ai massimi livelli nella società industriale, ci allontana sempre di più dalle società senza scrittura e ci dà un senso di vertigine. Martin Heidegger ne La questione della tecnica coglie il senso della differenza tra la tecnica preindustriale che si affida alle forze naturali, in un atteggiamento di attesa quasi riverenziale, e la tecnica moderna che pro-voca, che richiede energia e materia dalla natura, in modo che la natura stessa entri nel processo di produzione: “la centrale idroelettrica non è costruita nel Reno come l’antico ponte di legno che da secoli unisce una riva all’altra. Qui è il fiume, invece, che è incorporato nella costruzione della centrale. Esso è ciò che ora, come fiume, è cioè produttore di forza idrica, in base all’essere della centrale” (30). Con l’affermarsi della tecnica moderna la natura (31) perde definitivamente la sua inviolabilità, la sua sacralità. La tecnologia diviene il demiurgo della trasformazione della terra, un progetto che era già implicitamente presente nella utopia migliorista di Fourier. La tecnologia ha, anzi, essa stessa ricoperto nell’inconscio collettivo della società industriale gli spazi lasciati liberi dalla dimensione religiosa e dalla scomparsa di un rapporto quotidiano con la natura (32).
Le critiche ecologiste allo sviluppo economico, allo spreco ed alla tecnologia, introducono alla formulazione di due principi basilari per la costituzione di un’etica ecologica: principio di limitazione, principio di diversità. Il principio di limitazione stabilisce il diritto che hanno le generazioni future e i popoli in via di sviluppo di poter disporre delle ricchezze e delle risorse della biosfera. Nello stesso tempo ribadisce agli attuali usufruttuari dei beni naturali il dovere di limitarne l’uso e lo spreco. Il principio di diversità si propone come fine “il tentativo di mantenere nel loro stato attuale quelle aree della superficie terrestre che ancora non portano i segni evidenti del lavoro umano e di proteggere dall’estinzione le specie viventi che l’uomo non ha ancora distrutto” (33). Il principio di diversità afferma il diritto che tutte le specie viventi sulla terra siano degnamente rappresentate, e che la progressiva diminuzione di esse costituisce una massificazione, una perdita di possibilità e di ricchezze genetiche alternative.
Questi due principi implicano un legiferare intorno all’uso delle risorse naturali e dell’atteggiamento umano verso gli animali, piante, paesaggi e ritagliano una nuova sfera giuridica che si rivolge al rapporto triadico uomo-società-natura. Il principio di limitazione critica la libertà borghese e il suo modo di rapportarsi alla natura; critica, soprattutto, l’etica utilitaristica e produttivistica che vede nell’aggressione alla natura una procedura obbligatoria per il progresso nella salvezza dell’uomo. Il principio di limitazione allargando il diritto di partecipazione alla gestione delle risorse naturali alle popolazioni del terzo mondo e alle generazioni future, include queste nella reale dinamica sociale che finora aveva avuto come protagonisti i popoli dell’occidente europeo e americano. Nello stesso tempo il principio di limitazione rende evidente che ogni atto nei confronti degli eco-sistemi compiuto dal singolo individuo, non può più essere diretto soltanto in conformità dell’utile personale al fine di un riscontro pecuniario, ma deve rispondere a delle valutazioni che superino le miopi vedute dell’imprenditore e si allarghino, invece, ad un orizzonte storico spaziale ben più vasto.
Implicito in questo principio è quindi la tesi che il mondo va ereditato, alle generazioni che verranno, in modo il più integro possibile, e in questo l’ecologia sembra accennare ad un ritorno alle società preindustriali (anche se ciò è in contraddizione con la mia precedente affermazione di negare un generico ritorno, nella coscienza ecologica, a civiltà passate).
Il principio di diversità raccoglie le istanze più innovative del discorso ecologico. In natura la diversità è una costante (34).
L’evoluzionismo prima e la scoperta del DNA e delle mutazioni genetiche ci insegnano che l’attività dei geni è sempre in movimento creando nuovi aggiustamenti tra ambiente e specie naturali. La società industriale consumista tende invece alla massificazione e omogenizzazione delle differenze.
L’ibrido (35), in agricoltura, è la traduzione diretta di questa filosofia. Numerosi incroci portano alla costruzione artificiale di pochissime specie ibride, che oltre ad essere sterili (c’è forse un motivo inconscio nel rendere sterile piante o animali coltivati e potrebbe essere che soltanto l’uomo con i suoi incroci vuole decidere quali piante o animali possono riprodursi), riducono lo spettro di possibilità esistente in natura.
Il principio di diversità ribadisce quella che è la tensione della natura verso la dispersione, contro le politiche accentratrici dell’odierna società. Il principio di diversità sancisce perciò, come già quello di limitazione, un nuovo diritto: il diritto di esistenza per animali, piante, paesaggi. Questo nuovo diritto, che già trova le prime applicazioni legislative, vedi la Carta dei diritti degli animali, impensabile fino a poco tempo fa, si oppone a tutti gli ecocidi, i maltrattamenti e le distruzioni ambientali ingiustificate. Il termine ingiustificato crea dei problemi all’interno della sfera etico-giuridica che viene costituendosi nell’ecologismo, in quanto questo aggettivo da solo non dà garanzie ulteriori per un giudizio di valore che è sempre esterno, e mai interno alla legge stessa. Il principio di diversità pone quindi un problema, ma non lo risolve, lo lascia così incompiuto al pubblico dibattimento per suscitare adesioni o dissensi introno al diritto di esistenza delle specie.
Il principio di limitazione e quello di diversità si pongono come alternativa all’attuale modello di sviluppo, la loro applicazione ricade però nell’area della scelta volontaria e cosciente.
Secondo André Gorz c’è una necessità nell’adeguarsi ai principi testé citati. Soprattutto è, nel suo pensiero, fondamentale limitare la crescita industriale, poiché siamo vicini alla soglia, al limite.
Per John Passmore l’uomo ha una responsabilità nei confronti del resto della natura. In quanto specie pensante autocosciente, l’uomo deve sì, sfruttare la natura, ma deve cercare di mantenere il più costante possibile gli equilibri naturali, pena la sua stessa sopravvivenza sulla terra (36).Il discorso della necessità (Gorz), e quello della responsabilità (Passmore), non valgono di per sé una costruzione di un’etica ecologica. La necessità è ancora una categoria dell’utilitarismo economico, magari razionalizzato e aggiornato dalla nuova situazione storica prodottasi. L’ecologia, in questo senso, sarebbe, sotto una nuova veste, una continuazione dell’economia politica, e ne incarnerebbe le stesse esigenze (Gorz comunque fa anche altre proposte e sarebbe troppo lungo trattare in poche righe argomenti così interessanti. Gorz parla anche di una società ecologica) (37).
Il concetto di responsabilità verso le altre specie, (oltre ad essere un discorso tautologico, chiaramente le altre specie, animali per esempio, non sentono dei doveri verso di noi, il problema rimane sempre quello di fino a che punto siamo responsabili, quindi un problema di scelta) riporta la discussione in ambiente ottocentesco, dove la centralità dell’Io, soggetto unico della storia, era una modalità accettata da tutte le filosofie.
Questo punto di vista non tiene conto né delle variabili temporali (tempo biologico), né di quelle spaziali (concetto di globalità), né di quelle avventizie (concetto di limite).
Responsabilità e necessità appartengono perciò ad una cultura di retroguardia che si affida ancora a valutazioni di tipo economico e di stampo autoritario. I fondamenti di un’etica ecologica non si trovano nei concetti di necessità o di responsabilità. D’altronde il discorso ecologico è oggi preso in considerazione alla luce di paure e bisogni (ciò può essere valido anche per il pacifismo) che erano fino a poco tempo fa inesistenti. Nella ricerca dei fondamenti per una etica ecologica siamo giunti ad un impasse difficile da superare, ed ognuno come già detto può portare il proprio contributo al dibattito.
L’etica ecologica, per costituirsi come tale, deve superare la sua situazione contingente, che la riduce ad espressione di una paura (riusciremo a sopravvivere su questa Terra?) o ad una categoria economica (necessità di amministrare bene le risorse naturali). L’etica ecologica è ancora un’ipotesi che potrà diventare una normativa di comportamento soltanto quando l’uomo non considererà più la natura come nemica ed estranea, come un aspetto irrazionale e pericoloso che lo insidia, anche nella sua psicologia individuale, ma come una parte di se stesso.
Un ecologismo etico non può prescindere, secondo me, da un approccio estetico alla natura. Le infinite forme naturali, la potenza e la bellezza della natura sono dei deterrenti alla sua completa distruzione molto più di qualsiasi rendimento economico. Questa idea di bellezza naturale che seduce l’uomo del duemila, può rappresentare un primo passo verso un’etica ecologista.
Bibliografia
(1) Ernst Haeckel (1834 – 1919), professore di zoologia all’università di Jena e grande ammiratore di Darwin. Formulò una teoria dell’evoluzione: “La legge biogenetica fondamentale”, che pone un parallelismo tra lo sviluppo dell’embrione individuale e lo sviluppo della specie cui essa appartiene. Secondo Haeckel, “l’ontogenesi è una ricapitolazione abbreviata ed incompleta della filogenesi”. Haeckel ricomprese l’antropologia nella zoologia e negli ultimi anni della sua vita negò ogni differenza qualitativa tra l’uomo e gli altri animali. Opere principali: Morfologia generale degli organismi, 1866, Storia naturale della creazione, 1872, Enigmi dell’universo, 1899.
(2) L’ecologia segue così la stessa strada dell’evoluzionismo darwiniano. Il percorso da disciplina scientifica a teoria sociale sembra essere una costante delle scienze biologiche: l’evoluzionismo era stato preso a prestito sia dalla scienza positivista, Derbert Spencer, che da quella marxista, Engels e poi Lenin.
(3) R. Carson, Primavera silenziosa, Milano, Feltrinelli, 1963.
(4) A. Gorz, Sette tesi per cambiare la vita, Milano, Feltrinelli, 1977. A. Gorz, Addio al proletariato, Roma, Ed. Lavoro, 1982. Vedi anche: J. Attuali – M. Guillaume, L’antieconomia, Venezia, Marsilio Editore, 1977.
(5) Il termine ecologismo appare per la prima volta nel saggio di A. Gorz, Ecologie et liberté.
(6) P. B. e S. S. Medawar, Da Aristotele a zoo, Milano, Mondadori, 1986, p. 91.
(7) Ibidem, p. 89.
(8) Secondo Jeremy Rifkinn, economista ed ecologista americano, “l’ultraspecializzazione biologica è uno dei fattori più importanti che contribuiscono all’estinzione di una specie”. Questa affermazione viene estesa da Rifkin anche ai sistemi sociali e ai processi conoscitivi. Ribadisce a questo proposito E. Tiezzi che: “perdita di diversificazione, aumento di entropia, superspecializzazione, significano anche perdita di cultura interdisciplinare, frammentazione del sapere”. V. J. Rifkin, Entropia, Milano, Mondadori, 1982 ed. E. Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, Milano, Garzanti, 1984.
(9) Lovelock, ecologo americano, considera la Terra un enorme organismo vivente. La Terra, che egli chiama Gaia come gli antichi Greci, riuscirà a sopravvivere grazie alle sue stesse autodifese che sta mettendo a punto contro l’inquinamento causato dall’uomo. Nella teoria di Lovelock emerge la figura di una Terra-madre, una dea che l’uomo non deve e non può distruggere. J. Lovelock, Gaia, Nuove idee sull’ecologia, Torino, Boringhieri, 1983.
(10) “L’abbattimento delle foreste tropicali in Africa ed in America meridionale cambierà il clima del mondo. Abbattere la foresta significa, infatti, restituire alla Terra (e quindi al mare) un immenso serbatoio d’acqua che oggi viene tenuto a mezz’aria in un continuo rapido alternarsi di evaporazione e condensazione. E questo, senza calcolare gli effetti dell’abbattimento della foresta sul bilancio generale dell’ossigeno”. L. Conti, Che cos’è l’ecologia, Milano, Mazzotta, 1977, p. 15.
(11) Ibidem, p. 66.
(12) Si intende per ciclo naturale o un processo regolato da movimenti astronomici (stagioni, mesi, maree), oppure un processo costituito da diversi passaggi di stato di un certo elemento o sostanza (ossigeno, acqua, azoto), o infine da una catena di situazioni collegate (catena alimentare), in cui la situazione finale è uguale a quella iniziale.
(13) E. Tiezzi, op. cit., p. 55.
(14) L’entropia, indicata con S, misura la tendenza spontanea di degradazione in calore dell’energia. L’energia degradata in calore non è più utilizzabile per compiere un lavoro fisico.
(15) E. Tiezzi, op. cit., p. 53.
(16) Chiamasi struttura dissipativa un sistema (città, fabbrica, organismo biologico) che produce un aumento dell’entropia nell’ambiente naturale.
(17) T. Veblen, Teoria delle classi agiate, Milano, Rizzoli, 1981.
(18) H. Forrester – D. Meadows, I limiti dello sviluppo, Milano, Mondadori, 1972.
(19) A. Casiccia, Ideologia dei “limiti dello sviluppo” e ristrutturazione, in “Aut-aut”, (1975), n. 147, maggio-giugno, p. 33.
(20) Per quanto riguarda la critica ecologica all’economia politica vedi: Attali, Guillaume, L’antieconomica, op. cit., A. Gorz, Ecologia e politica, Milano, Cappelli, 1977; sempre di Gorz i già citati: Addio al proletariato e Sette tesi per cambiare la vita.
(21) E. Tiezzi, op. cit., p. 186.
(22) E. Mishan, Il costo dello sviluppo economico, Milano, Angeli ed., 1976.
(23) O. Giarini, Dialogo sulla ricchezza e il benessere, Milano, Mondadori, 1981.
(24) In Cile si è poveri se si va a piedi nudi, in Cina si è poveri se non si possiede una bicicletta, in Italia se non ci si può pagare un’automobile.
(25) Vedi di I. Illich, La convivialità, e Descolarizzare la società, Milano, Mondadori.
(26) I. Mancini, Forme etiche oggi, in “Rivista di teologia morale”, (1983), p. 14.
(27) Ibidem, p. 39.
(28) A. Gorz, Addio al proletariato, op. cit.
(29) L’ecologismo è la reazione ad una distruzione massiccia e reiterata della natura compiuta dall’uomo negli ultimi 200 anni di storia. Anche se prima si erano verificate altre catastrofi ecologiche (sembra che la desertificazione del Sahara sia da imputarsi alle monocolture intensive colà praticate), solo oggi si concretizzano progetti (vedi l’abbattimento delle foreste tropicali) che mettono a repentaglio la vita stessa sul pianeta Terra.
(30) M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, p. 13.
(31) Il concetto di natura esigerebbe una trattazione più approfondita che però non è possibile sviluppare in questa sede. V. P. Casini, Natura, Milano, Isedi, 1975; R. Lenoble, Storia dell’idea di natura, Firenze, Le Monnier, 1976.
(32) Vedi I. Illich, La convivialità, op. cit.
(33) J. Passmore, La nostra responsabilità verso la natura, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 111.
(34) E’ in corso un grosso dibattito a livello internazionale sulla scomparsa di specie vegetali e la creazione di banche dei semi dove vengono raccolti tutti i germoplasmi esistenti. Si ritiene che la distruzione delle foreste e la antropizzazione delle ultime poche aree vergini rimaste sul pianeta, porti alla sterilità, dal punto di vista genetico, delle principali specie cerealicole usate come cibo primario dalle società umane. Ciò è ancora più grave quando in caso di una perdita di vitalità delle attuali sementi non si avranno a disposizione altri germoplasmi della stessa specie pronti a sostituire i vecchi. Vedi AA. VV., I semi della discordia, Milano, Clesav, 1985.
(35) L’ibrido racchiude le diverse caratteristiche dei semi da cui ha origine; è però molto più fragile agli attacchi degli insetti rispetto alle specie di provenienza.
(36) John Passmore nega la necessità di un’etica ecologica.
(37) A. Gorz, Sette tesi per cambiare la vita, op. cit.
Pubblicato su “STUDI URBINATI“.